La prima considerazione in morte di David Bowie, è che Bowie non è mai esistito. Il nome stesso era una finzione, un’impalcatura, sulla quale a loro volta sono poi state montate anno dopo anno scenografie differenti. Il David glam, il David pop, il David nazi, il David duca, il David gay, il David-qualunque-cosa, la rockstar e la godstar e la blackstar. La gente chi dice che io sia? Non importa. Nell’era della celebrità, Bowie muore senza che nessuno sappia il suo nome.
Dire che David Robert Jones non sia stato niente sarebbe perlomeno ingeneroso, tanto quanto però sarebbe limitante dire che è stato qualcosa. Come l’impulso dell’umanità è di allontanarsi dalla propria natura mortale attraverso la conoscenza, così l’artista cerca di ingannare l’obbligo più odioso per il creativo: avere una vita solamente nella quale essere una persona solamente. Il creativo genera altri sé, vive altre vite, supera i limiti dell’anagrafe e della coerenza. Si reincarna continuamente, muta di contenitore, come un’informazione che muove da un server all’altro.
La vita, le imprese e la morte di David Robert Jones sono state un continuo esperimento di quella iperrealtà che per Baudrillard è la cifra del postmoderno: una costruzione artificiale, superiore alla realtà in quanto sovrapposta, che rovescia la realtà e la sostituisce con la simulazione. Lo fanno quotidianamente i media, i personaggi pubblici e i nostri amici social: mentono. Lo fanno per la stessa ragione per cui ci ingannano il cinema, la pittura, la letteratura: perché noi desideriamo essere ingannati.
La finzione ci accoglie comodamente e diviene una dipendenza. Faticheremmo ormai a vedere il mondo reale. Non lo riconosceremmo, tanto quanto non riconosciamo una nostra foto uscita male. Non vogliamo essere come siamo, ma ci fingiamo altro da noi, pretendendo di rimanere noi stessi. Ecco allora il senso del rivoluzionario esperimento nichilista e post moderno di David Robert Jones e la ragione per cui lo onoriamo: non ha mai finto di essere sé stesso.