I fatti tanto lontani che mi accingo a ricordare, apparvero quasi incomprensibili agli occhi dei contemporanei, e non oso immaginare quanto lo sarebbero per noi piccoli uomini del secondo millennio: in effetti, perché mai uno squattrinato giovane principe di appena vent’anni, per il quale l’eredità dei suoi avi Stuart doveva essere ben poca cosa a confronto del sangue polacco, italiano e francese che scorreva a fiotti nelle sue vene, avrebbe dovuto lasciare gli agi e le cortigiane della Roma papalina per correre dietro a sogni di gloria e di corone perdute tra le nebbie delle Ebridi? E perché mai un’accozzaglia di pastori delle Highlands e pescatori di Eriskay, avrebbe dovuto seguire, marciando al suono delle cornamuse, il pretendente venuto dal mare fino quasi alle porte di Londra?
Tra il 1745 e il 1746, esattamente duecentosettanta anni or sono, l’isola di Britannia fu teatro di un avvenimento del tutto estraneo alla natura dei tempi, e del quale certo gli onesti bottegai di Sheffield e della costa avrebbero discusso ancora a lungo nelle piazze e nelle osterie, avvolti in cappe di fumo e negli odori speziati, umettandosi i baffi argentati nella birra, mentre nei buoni salotti del siècle lumière, tra una tazza di caffé e l’altra, gentiluomini impomatati avrebbero tratto conclusioni sul senso della vita, sulle irripetibili e barbare imprese delle plebi dei secoli trascorsi, non ancora toccate dal salvifico lume della ragione. Tenteremo di narrare quest’impresa, ché sia per noi fonte di sollievo nel tragico isolamento dello spirito che i tempi ci impongono.
Gli ultimi sussulti dell’epopea giacobita, degni di figurare tanto nelle pagine di un poema epico quanto tra quelle di un romanzo picaresco, rappresentarono un avvenimento all’apparenza fuori della realtà, quasi che il vano tentativo dell’ultimo Stuart, Carlo Edoardo, pronipote del sovrano decapitato a Whitehall, di riconquistare il trono dei suoi padri, appartenesse alle dinamiche di un tempo antico e fortunatamente tramontato del quale, ciononostante, avrebbe risvegliato le pulsioni ataviche e gli spettri sopiti, in una gloriosa marcia verso la disfatta. Fingeremo di non sapere che sul continente infuriava la guerra di successione austriaca, fingeremo di non sapere che dietro lo sbarco di Carlo v’era l’oro francese: in un’epoca di sordidi maneggi politici come la nostra, i timidi tentativi dei diplomatici di re Luigi XV ci appaiono come insignificanti, quasi la gustosa marachella di un ragazzino disubbidiente.
La rivolta giacobita del 1745 fu l’ultimo sussulto del mondo feudale in un regno che si avviava a divenire il luogo eponimo dell’industrializzazione e del nuovo corso: certo, in Europa ci sarebbero stati ancora la Vandea in Francia e l’esercito carlista in Spagna, per tacere dei sanfedisti nel Mezzogiorno italiano, ma forse l’impresa di Bonnie Prince Charlie è la sola ad essere preservata in un’aurea di mito e di tragico, intaccabile splendore, estranea alle complicazioni della modernità, nonostante qualcuno oggi voglia farla assurgere, certamente a sproposito, ad epopea nazionale scozzese.
Carlo Edoardo, the Bonnie Prince, sbarcato il 25 luglio nella rada di Loch nam Uamh da una fregata francese, chiamò a raccolta i Clan fedeli e sulla rocca di Glenfinnan tornò a garrire lo stendardo degli Stuart. Fort William, Prestonpans ed infine Edimburgo: la Scozia, la magnifica Alba, era tornata nelle mani dei suoi antichi signori. Meno di un anno dopo, dell’esercito ribelle non restavano che i superstiti di Culloden Moor e i pochi sfuggiti alle proscrizioni inglesi. Carlo Edoardo fuggì con l’aiuto di una nobildonna, Flora MacDonald, e non avrebbe mai più fatto ritorno in Scozia; visse ancora lunghi anni, in esilio, a Parigi e a Roma, presso il fratello Enrico Benedetto, cardinale. La bellezza quasi femminea del suo volto sfiorì per la bile e l’abuso di alcol, mentre il non più giovane pretendente si illudeva, tra banchetti e balli di corte, d’essere ancora quel re che gli Scozzesi attendevano, che la sua nobile forza e l’impeto guerriero non erano svaniti per sempre e che la sua voce, melodia di bardi nella rada di Arsaig, sarebbe certo valsa ancora a radunare accanto a sé i suoi fedeli. E prima di spegnersi tra le braccia della sua unica figlia nell’angusta solitudine di Palazzo Muti, the Bonnie Prince, un vecchio ormai gottoso, labbra e guance cascanti, non più che l’ombra, la leggenda di sé stesso, divenne quell’irragionevole e sempre ubriaco padrone, querulo, sragionevole e sempre ebro marito che Alfieri, amante della di lui moglie, la sensibile Luise von Stolberg-Gedern, ricorda nella sua Vita. Eppure le tragiche vicende dell’ultimo Stuart, re senza corona e zimbello dei suoi pari, continuarono ad ispirare opere di poeti e scrittori dal gusto romantico, dal Waverley di Walter Scott (e nello stesso Ivanhoe i contrasti medievali tra Sassoni e Normanni non sono forse specchio di quelli, certo più familiari all’autore, tra Scozzesi e Inglesi?), a Kidnapped (Il ragazzo rapito) di Stevenson, fino a fornire la lontana cornice per il Tom Jones di Fielding.
Inoltre l’epopea giacobita non è scevra di suggestioni che potrebbero catapultarci facilmente nel mondo delle ucronie: cosa sarebbe accaduto se i ribelli scozzesi fossero giunti a Londra? Cosa se, oltre che baciare la pietra di Scone, Carlo Edoardo avesse sfilato in processione nelle strade della capitale, verso Westminster, cingendo i diademi della corona britannica? Non ci è dato saperlo né mai lo sarà, poiché ogni cosa finì tra le brune di Culloden.
Gli antichi bardi, che ancora al tempo di Edoardo e Robert Bruce vagavano per le brughiere e su nelle Highlands, ne avrebbero cantato le gesta all’ombra delle querce, il popolo raccolto attorno, in muto ascolto, il palpito bruciante nei cuori; e d’inverno, sotto le prime nevi di Natale, i ministri del culto, gli anziani e i sacerdoti di Santa Romana Chiesa coi loro paramenti dorati, uniti, avrebbero cantato un coro di ringraziamento e di gloria, poiché non nobis Domine sed nomine tuo da gloriam. E, accanto a loro, druidi dalla barba candida, come Merlino col suo Artù, avrebbero gettato il vischio in cerchi di fuoco. Ma quei tempi erano trascorsi ormai, Lochaber no more… Tutto si compì a Culloden dinnanzi ai moschetti del duca di Cumberland accorso dalle Fiandre. Caddero le teste, cadde il capo canuto di Lord Lovat, il MacShmidh, la vecchia volpe, e fuggì Lord George Murray, fuggì il principe e la folle impresa si risolse in una cavalcata verso Lochaber e le navi del re di Francia.
Un’avventura venuta dal passato e condotta nello spirito di Malcolm e MacBeth, nulla avrebbe potuto contro la storia. Non resta che il canto, Fiore di Scozia, non resta che il canto dell’eterno viandante lassù, nelle Highlands.