Economia. Thorntons tricolore: se l’Italia (con la Ferrero) torna ad acquistare marchi internazionali

UnknownNon c’è solo la svendita del made in Italy. Dopo aver visto passare in mani straniere le proprietà di alcuni dei principali marchi italiani della moda o dell’enogastronomia, questa volta è un gruppo italiano a fare shopping a livello internazionale. E non poteva che essere la Ferrero, la protagonista dell’acquisizione.

Nel mirino del gruppo di Alba (e non importa se la sede legale, per le solite ragioni, sia all’estero) c’è la britannica Thorntons che produce cioccolata e che ha chiuso l’ultimo esercizio con un fatturato di 222,4 milioni di sterline ed utile operativo di 8,6 milioni. L’operazione vale 111,9 milioni di sterline, ossia 157,6 milioni di euro. E porterà in dote alla Ferrero 3.500 dipendenti, 242 negozi e caffè in Gran Bretagna ed Irlanda, 158 outlet in franchising.

Smentiti, dunque, tutti coloro che pensavano ad una cessione del gruppo cuneese dopo la morte del patron Michele Ferrero. Convinti che il figlio Giovanni, amministratore delegato del gruppo, non fosse particolarmente interessato a proseguire l’attività imprenditoriale, soprattutto dopo la prematura scomparsa del fratello Pietro. Invece Giovanni Ferrero, che in occasione dei funerali del padre aveva chiarito di non voler cedere l’azienda, ha puntato al rilancio.

Non solo si tiene ben salda l’azienda di famiglia, ma rafforza il gruppo attraverso quelle acquisizioni che non avevano mai entusiasmato Michele, più propenso alla crescita esclusivamente per linee interne. Indubbiamente la Ferrero non è mai stata un’azienda tipica dell’imprenditoria italiana. Nessuna luce della ribalta, nessun interesse ad approfittare dell’immagine del made in Italy per sostenere i prodotti. Anzi, la Ferrero non aveva sponsorizzato le Olimpiadi di Torino proprio per evitare una connotazione italiana del gruppo. La strategia prevedeva, al contrario, che ogni prodotto sembrasse legato ad un Paese diverso: l’Italia per la Nutella, la Germania per il Kinder, la Francia per il Mon Chéri, gli Stati Uniti per i Tic Tac.

Non si tratta quindi di un segnale di inversione di tendenza da parte degli industriali italiani. Più propensi a vendere che non a comprare. Ma non si tratta neppure di un caso isolato. Anche se, per ora, prevalgono nettamente le iniziative all’estero legate a joint ventures o alla realizzazione di nuovi stabilimenti e nuove strutture piuttosto che ad acquisizioni (la vicenda Fca, con l’incorporazione di Fiat in Chrysler, è un caso molto diverso). Spesso si tratta di pure e semplici delocalizzazioni, a volte di fenomeni di internazionalizzazione corretta, per andare a produrre e vendere localmente.

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Augusto Grandi

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