Domani è il compleanno di Dino Zoff. Barbadillo ne celebra le gesta con questo articolo.
«La banalità uccide. Il silenzio fortifica». Provate a convivere per una vita intera con un’opinione pubblica che vi da del “musone”, che vi giudica come quello che non parla mai. In condizioni normali il pregiudizio è spesso un dramma; il silenzio a volte maschera dolore o stati d’animo di confusione. In qualche caso è emblema di serietà. La serietà con il mondo del calcio non è sempre andata a braccetto.
La sovraesposizione mediatica richiede tutto quello che il calcio moderno ci rende, spesso, fuori dal campo di gioco. Calciatori ai reality show o aBallando con le stelle; calciatori che aprono locali, firmano marche di mutande e biancheria intima, calciatori che fanno pubblicità. Calciatori che, come richiede la frame, il contesto, a ogni gol inventano balletti improponibili. «Se lo avessero fatto davanti a me li avrei picchiati»: a dichiararlo è Dino Zoff, l’antidoto al calciatore moderno. Lo stesso Zoff che dice che «la banalità uccide e il silenzio fortifica». Lui, che di silenzi se ne intende. Mentre quello che con ogni probabilità è il più forte portiere italiano di tutti i tempi – aspettando il fine carriera di Gianluigi Buffon, che di Zoff sembra raccogliere alcune eredità – si appresta a compiere 70 anni (il prossimo 28 febbraio), il valore del silenzio viene sottolineato da una personalità che non ha nulla a che vedere con il mondo del calcio.
«Il silenzio è parte integrante della comunicazione. Ma oggi, purtroppo, il frastuono è dominante»: sono parole pronunciate dal Papa Benedetto XVI, lo scorso 25 gennaio. «Grazie al silenzio – ha affermato Ratzinger – possiamo ascoltare e conoscere meglio noi stessi». Chissà quanta verità avrà percepito Zoff in queste parole. Lui che, senza mezzi termini, sa per quali ragioni è stato giudicato “musone”: «Perché le parole di troppo sono fumo. Perché non mi è mai andato di giudicare, di criticare, di dire bugie pur di dire qualcosa. Perché la banalità uccide, invece il silenzio fortifica». Eppure, forse è proprio grazie a questi silenzi, a questi momenti di riflessione che non gli sono mai mancati, a questo essere sobrio – prima ancora che questo vocabolo diventarsse l’imperativo categorico dell’agenda politico-economica di certi governi – che Zoff è diventato Zoff. Ossia uno che è partito da Mariano del Friuli, ha vestito le casacche di Udinese, Mantova, Napoli, Juventus e della Nazionale e ha vinto tutto. O quasi. Se da un lato è vero che Zoff già nel 1973 era arrivato secondo al Pallone d’oro dopo Cruyff, e se nove anni dopo darà un contributo fondamentale, peraltro da capitano, alla Nazionale di Bearzot campione di Spagna’82, è anche vero che Zoff non ha mai vinto la Coppa dei Campioni. In molti gli ricordano, o gli rinfacciano, il gol di Magath nella finale ateniese contro l’Amburgo nel 1983: «Tutti lo ricordano come un tiro da lontano, invece era un metro dentro l’area. La palla si abbassò in modo strano, con un effetto maledetto». La verità di Zoff a volte non coincide con certe supposizioni di comodo che in alcuni casi sfociano nell’offesa. Gianni Brera, ai Mondiali’78, parlò di «questione di diottrie» relativamente al tiro dell’olandese Haan da trentacinque metri che lasciò di sasso il portierone friulano. Ma quello del portiere è un ruolo beffardo: si è spesso ricordati per i gol subiti, piuttosto che per certi miracoli. Come quello che Zoff, appunto, compie sul colpo di testa di Oscar all’ultimo minuto del famoso Italia-Brasile 3-2, al Mundial di Spagna. «Volo e blocco a terra quella palla – ricorda Zoff –, sapendo che non esiste altra soluzione. So di averla presa in campo e non oltre la linea, ma è terribile l’istante in cui aspetto di capire se anche l’arbitro ha visto bene, mentre i brasiliani già gridano gol». Risentendolo parlare, si percepisce bene la prospettiva con cui Zoff ha guardato al calcio e alla vita. Quella che un paio di anni fa è stata raccontata nella biografia curata da Giuseppe Manfridi, Tra i legni. I voli taciturni di Dino Zoff (Lìmina). «Sistemandosi lì, tra i legni – ha scritto Manfridi –, Dino Zoff si è consegnato a un altro sport, a un’altra disciplina. Il modo da lui scelto per partecipare al gioco è equivalso alla predilezione di un punto di vista, che è quello di chi osservi l’evolvere del mondo dalla feritoia di un mondo a parte. Stando col gruppo, ma in fondo da solo. Giocare in porta è come guardare dal di fuori il calcio, non solo la partita. È un difendersi da essa, che a tratti ti viene incontro come un vento che s’accorge di te e ti chiama in causa. La realtà che appare. Il film che si stacca dallo schermo e invade la platea. Il mostro che minaccia di fuoriuscire dai criteri del sogno in cui sta. Tu contro la partita, non solo contro l’attaccante che minaccia il tiro … Tu addirittura contro i tuoi difensori, che possono rivelarsi più nefasti degli avversari, meglio saperlo e mai fidarsi troppo. Neppure di loro. C’è la discrezione di una garbata misantropia in tutto ciò. Altri potrebbero chiamarlo ritegno. Troppo facile. E casomai pensosità. Per il giovane Zoff è lo stato di allerta di chi scruti il daffare in campo come un contadino che tenga sotto controllo lo stato dei suoi campi». In Zoff c’è l’esempio. Vladimir Dimitrijevic di lui ha detto: «Dino Zoff si trovava sempre sulla traiettoria della palla, e non si è mai dovuto tuffare più di tre volte nel corso della sua carriera». Voli pittoreschi platealità non facevano per lui. È una questione di stile. E lo stile non compra.