Focus Argentina/2. Dal reazionario Peron all’anarcocapitalista Milei

L'evoluzione del Paese sudamericano tra populismo oligarchico, lotta alle povertà e soluzioni contro corruzione e povertà

Il neo presidente Milei

I tentativi di capeggiare un’integrazione economica del Subcontinente fallirono peraltro assai presto, tra gaffes e diffidenze di chi temeva l’espansionismo argentino. Nel ’48 il fisico austriaco Ronald Richter aveva presentato a Perón un progetto per sviluppare la fusione nucleare controllata. La Comisión Nacional de Energía Atómica (CNEA) per la ricerca e sviluppo dell’energia nucleare a fini pacifici fu creata ufficialmente nel 1950. Perón pensava all’inevitabilità di un altro conflitto. Sin dall’inizio la Presidenza fu di fatto una diarchia. Dove la moglie, una volta dirozzatasi un po’, occupava uno spazio sempre maggiore. Una delle benemerite battaglie combattute e vinte da Evita fu quella che portò al riconoscimento dell’uguaglianza dei diritti politici e civili tra gli uomini e le donne, con la legge presentata il 23 settembre del 1947. Dopo la vittoria nelle elezioni, fu Eva, presto ribattezzata Evita, che s’interessò di fare da intermediaria tra le richieste ed i problemi dei lavoratori e Perón. Fervente visitatrice di fabbriche, scuole, ospedali, sindacati, club sportivi e culturali, Evita si guadagnò la fiducia dei lavoratori e dei sindacalisti, stabilendo una forte relazione con loro. Aveva solo 27-28 anni. Ma conosceva il popolo lavoratore, la gente comune, si sentiva parte di essa, e allo stesso tempo avvertiva una immensa necessità di operare per proteggerla, aiutarla, farla sentire parte essenziale della nuova Nazione. L’ ‘aristocracia con olor a bosta’ (sterco), come disse un giorno Sarmiento, la disprezzava e lei ricambiava colpo su colpo.    

​Il lavoro della Primera Dama Eva Duarte all’interno del governo peronista si orientò principalmente all’assistenza sociale con lo scopo di combattere la povertà (o mitigarla).  L’8 luglio 1948 aveva creato la ‘Fondazione Eva Perón’, presieduta da lei stessa, che si occupava specialmente di migliorare le condizioni di vita dei bambini, degli anziani, degli handicappati, delle ragazze madri e delle donne appartenenti ai ceti più poveri. La Fondazione realizzò una vasta gamma di attività, dalla costruzione di ospedali, case di cura, scuole, campi estivi, all’assistenza e tutela della maternità ed infanzia. I giudizi sulla Fondazione riflettono, ovviamente, il diverso approccio. Per alcuni una benemerita istituzione, mossa dall’ardore generoso della giovane Primera Dama, l’emblema forse più visibile del peronismo, che radicò una sensibilità nuova. Per altri, invece, un monumento allo spreco, al ricatto, alla sopraffazione. Eva passava l’intera giornata, che si spingeva fino a notte fonda, nella Fondazione, a ricevere le richieste, le suppliche dei connazionali bisognosi, come una pia regina dell’Ancien Régime. Non era la filantropìa classica, non si trattava di retorica o pubbliche relazioni. Niente di estemporaneo ed improvvisato, ma una rete capillare di soccorso sparsa su tutto il territorio nazionale. E poi quella donna eccezionale, la fata dei derelitti, con i capelli divenuti biondi; la signora dei descamisados veramente si commuoveva di fronte allo spettacolo della miseria. Era sempre elegantissima, emanava fragranze di profumi francesi, esibiva preziosi gioielli, mentre dava udienza; non tanto per la sua femminilità ed immagine di ex-attrice, ma perché sapeva quanto i poveri avessero bisogno di vedere la bellezza che dona, aiuta, consola, esaudisce. Sarebbe stata per lei un’ipocrisia, una mancanza di rispetto per il popolo bisognoso, il cercare di mimetizzarsi, addobbarsi da meschina. Evita non aveva mai paura di sporcarsi le mani o di contagiarsi. ‘Dove esiste una necessità nasce un diritto’, sosteneva convinta.

La Fondazione funzionava con contributi pubblici e, soprattutto, donazioni. Tali donazioni erano talora estorte, con minacce di rappresaglie di vario genere. Per gli oppositori, la Primera Dama spendeva fortune in gioielli e vestiti come un’imperatrice; se lasciava la Fondazione, peregrinava in treno per  le vaste pianure, affacciandosi dal finestrino di un vagone speciale, salutando e gettando ai poveri festanti giocattoli, materassi ed alimenti, come ‘fossero galline alle quali si butta il granoturco’. Cioè manifestazioni di un ‘populismo’ che a molti pareva una ‘democrazia di ignoranti’, degradante. Populismo come meccanismo di captazione del consenso, non rimedio, ma bensì ‘fabbrica di poveri’. Il peronismo funzionava agli occhi di molti come una semidittatura verticalista, insofferente di opposizioni, con dispotismi sciocchi (ad esempio la proibizione per gli argentini di recarsi in Uruguay, dove molti avevano sempre trascorso le vacanze, andavano a giocare ai casinò), censura, detenzioni immotivate, confische capricciose, delazioni incoraggiate, torture sistematiche della Polizia (rimase tristemente famoso l’uso, a scopo intimidatorio, della picana elettrica); soprusi intollerabili che spingevano taluni all’esilio e finirono col riversare sul regime un odio smisurato. Ci saranno stati furbastri, disonesti e profittatori attorno ad Eva, ma la Fondazione non era uno strumento per l’arricchimento illecito.

Prima dell’aggravamento del cancro all’utero, Evita compartì veramente le stesse sofferenze dei poveri, dei derelitti, degli ultimi. Non era una santa, beninteso, però nessuno, né prima né dopo, ha mai esibito una simile sollecitudine verso gli indigenti. Ci fu certamente un culto della personalità smodato (sintetizzato dai cartelli affissi su tutte le opere pubbliche in esecuzione: “Perón cumple, Evita dignifica”), al quale né la donna né il Presidente vollero opporsi. Evita sapeva comandare e farsi obbedire, le piacevano gli applausi della folla. Conosceva il mondo reale nel quale operava, anche se sopravvalutava la propria forza e capacità. Era risoluta, decisa, cocciuta, sapeva sorridere, non solo azzannare. In lei agiva pure il forte risentimento sociale della figlia illegittima. Ebbe comunque il gran merito, guidata da Perón, di far eliminare dagli statuti della CGT ogni riferimento alla lotta di classe, al marxismo, contribuendo assai alla “nazionalizzazione delle masse lavoratrici”. Ma a soli 33 anni, nel luglio ’52, il cancro prevalse sulla sua forte volontà. Comparve l’ultima volta sulla Packard nera, il 4.6.1952, per la seconda assunzione presidenziale del marito. Eva Perón generò sentimenti di odio, particolarmente nelle classi alte, sempre attaccate. Si convertì, però, in oggetto di enorme venerazione popolare, tuttora perdurante. Oltre gli eccessi demagogici, fanatici – e pure ‘scivolate’ nepotistiche a favore di parenti, per lo più inadeguati – è innegabile che la classe lavoratrice identificò nella persona di Evita, più che non in Perón, l’anelo ad una autentica e non superficiale ‘giustizia sociale’. Grazie al peronismo le classi meno abbienti poterono accedere alle Università, i lavoratori ebbero diritti altrove già riconosciuti e parecchi, in ultima analisi, smisero di essere poveri. Il classismo del patriziato porteño del tempo lasciò progressivamente luogo ad una accentuata osmosi sociale. Il governo di Perón all’inizio rimase assai legato alle Forze Armate, con la Chiesa considerate il baluardo contro il comunismo. Nel 1946 il Senato approvò una legge che confermava tutti i decreti del precedente governo, tra questi la legge sull’istruzione religiosa obbligatoria. L’educazione scolastica divenne un mezzo di propaganda per il Presidente e la consorte; nel giugno ’50 Perón nominò però un massone, Armando Méndez San Martin, Ministro dell’Istruzione, in un’atmosfera di crescente sospetto. Come ha scritto Loris Zanatta, docente italiano di Storia dell’America Latina all’Università di Bologna in La nazione cattolica. Chiesa e dittatura nell’Argentina di Bergoglio (Bari, Laterza, 2014):

“Il cuore del conflitto fu su chi deteneva le chiavi della nazione cattolica, quelle che davano accesso al monopolio sull’identità nazionale e sulla legittimità dell’ordine pubblico. Per il peronismo la risposta era ovvia: in quanto movimento nazionale e cattolico, era esso ad avere riportato il Paese alle radici cristiane e ad avervi integrato le masse. Dovere della Chiesa era cooperare compiendo la sua funzione nella ‘comunidad organizada’. Ciò che il peronismo esigeva in nome della sua cattolicità era dunque una Chiesa peronista”.

Perón non condivideva, ovviamente, l’aspirazione di Pio XII di promuovere partiti politici cattolici. Il papa considerava l’Argentina una salda roccaforte anticomunista e temeva che il peronismo fosse l’incubatrice del marxismo ateo. Alcuni provvedimenti provocarono malumori: nel 1954 il governo soppresse l’educazione religiosa obbligatoria nelle scuole, tentò di legalizzare la prostituzione (come del resto era stato fino al 1934), approvò una legge sul divorzio e promosse un emendamento costituzionale per la separazione di Stato e Chiesa. Il Presidente accusò, quindi, pubblicamente il clero, che aveva alzato la voce, di sabotaggio. Il 14 giugno ’55, durante la festa del Corpus Domini, alcuni vescovi pronunciarono forti sermoni antigovernativi. Fu il punto di rottura: durante quella stessa notte gruppi di peronisti attaccarono, saccheggiarono e bruciarono alcune chiese di Buenos Aires. Perón accusò i comunisti di essersi infiltrati. Due giorni dopo egli venne scomunicato dal Papa Pio XII e la scomunica sarà revocata solo più tardi da Paolo VI. Pare, scrissero dei giornalisti, per influenza di Licio Gelli, sorta di Giano bifronte…

Precedentemente, il 15 aprile, la CGT aveva organizzato una manifestazione di appoggio a Perón. L’opposizione

fece esplodere alcune bombe e gruppi di estremisti peronisti incendiarono per rappresaglia la sede del Jockey Club, simbolo dell’oligarchia e della cultura elitaria, con la sua preziosa pinacoteca.  Un altro episodio per saldare le FF.AA.

– legate in maggioranza ad un cattolicesimo conservatore e socialmente immobilista – e le élites, convincerle all’azione.

I militari avevano sempre pensato che la tutela della nazione cattolica fosse il loro primo dovere. Nella galassia justicialista il peso della componente populista, protetta da Evita, era però cresciuto a spese di quello castrense, erodendo

gli equilibrî del potere peronista stesso.

L’adesione alla massoneria

Era Péron massone? Quasi certamente no, almeno all’epoca dei suoi primi due governi, anche se molti massoni elogiarono le sue posizioni progressiste e poi laiche. Probabilmente Péron ebbe con le Logge solo un rapporto fluido.

“Perón era massone, io lo iniziai a Madrid nel giugno 1973”, dichiarò anni dopo Licio Gelli. Affiliazioni cosiddette ‘all’orecchio o sulla spada’, cioè occulte agli stessi confratelli, con l’eccezione del Gran Maestro; così l’identità di alcuni iscritti importanti rimaneva ‘sotto il cappuccio’, nascosta. Ma Gelli si è rivelato a volte mitomane ed inaffidabile. Una affiliazione a quasi 78 anni non significherebbe poi molto. Comunque, sull’aereo che pochi giorni dopo riportò definitivamente Perón a Buenos Aires c’erano lo stesso Gelli e Giancarlo Elia Valori, presumibilmente in un’ottica affaristica, più che di ampliamento di poteri massonici o esoterici. Poi Gelli espulse Valori dalla Loggia P2.

Come ha scritto ancora Loris Zanatta:

“Dopo la morte di Eva, Perón cercò di restaurare l’armonia perduta. Toccava ora ai produttori recuperare il terreno perduto a vantaggio dei lavoratori: basta sprechi e tutti a produrre, fu la parola d’ordine. Ma il peronismo di Eva era troppo cresciuto per rientrare nei ranghi. Se per Perón l’ordine sociale era un insieme di corpi che il capo teneva uniti ed in equilibrio, per Eva era il campo di battaglia senza mediazioni tra il Bene ed il Male, tra il suo popolo e l’oligarchia. Tale visione rendeva fatuo il sogno di un’armonica ‘comunidad organizada’ e spingeva ai suoi margini settori crescenti di Chiesa e Forze Armate. Le quali furono così protagoniste della cosiddetta ‘Libertadora’ che più di una reazione oligarchica fu l’implosione della Nazione cattolica. Del mito (peronista) che imponendo un principio di unanimità a una società sempre più plurale innescava una guerra di tutti contro tutti per impossessarsi della legittimità che solo esso (voleva) conferire: un mito che nella sua ansia di unire, spaccava” (Op. cit.).

Nel 1955 un’Argentina divisa, travolta dalla diffusa corruzione, cadde, ma non s’estinse. Il peronismo non si era infatti spento da sé e nonostante apparisse a molti osservatori ‘un regime esausto’, dai tratti soffocanti, cadde per un atto di forza, lasciando il popolo orfano. Si determinarono così le condizioni perchè, proscritto e perseguitato, divenisse oggetto di idealizzazioni romantiche e si apprestasse a risorgere più forte di prima, contaminato dall’onda lunga della successiva rivoluzione cubana.

‘Soy un general pacifista, algo así como un león herbívoro!’, soleva dire, burlone, Perón in esilio, quando gli

chiedevano perché non avesse resistito in armi ai golpisti nel ’55. Lui, militare fino al midollo, anche se ormai inviso alla  maggioranza dei suoi camerati, essendosi convertito in un ‘general populista’, che contribuiva poderosamente alla realizzazione del temuto ‘se aplebeya todo’, non avrebbe mai provocato una guerra civile. Rifiutò ogni suggerimento di chi lo invitava a farlo. Dalla strage di giugno ’55, quando la Plaza de Mayo fu bombardata dall’Aviazione Navale, provocando oltre 300 morti e 800 feriti, il golpe era questione di tempo. Il peronismo di Evita, emotivo, dicotomico, poggiato su di una visione alquanto rudimentale della politica, che ispirerà poi il fanatismo montonero, non era quello di Perón…  Nei 18 anni dell’esilio, seppur continuò a dirigere l’Argentina peronista, più che tornare presidente Perón lottò perchè fossero restituiti i pieni diritti alla sua parte politica  e gli fosse devoluto il grado di Teniente General: poter così rivestire l’adorata uniforme; essere infine sepolto nella stessa. Le bizzarrie tumultuose e sanguinose della politica del tempo, l’incapacità del presidente Cámpora e della sinistra peronista, l’attività guerrigliera dei montoneros, dei castristi, dei trotskisti dell’ERP, lo obbligarono, invece, ad essere Presidente per pochi mesi, dall’ottobre 1973 al luglio 1974 quand’egli morì, lasciando la suprema carica nelle fragili mani della moglie, scelta per evitare lo scontro destra-sinistra. Fu la premessa al golpe del 24 marzo ’76, di Videla, Massera, Agosti e delle tragedie, detenzioni segrete, uccisioni, ratto di minori, torture: dalle migliaia di desaparecidos alla sconfitta nella incauta Guerra delle Malvinas, che seguirono.

Dal golpe del generale José Félix Uriburu, che depose nel 1930 il radicale Hipolito Yrigoyen ed il suo governo costituzionale, stabilendo la prima di una serie di dittature militari che durarono fino al 1983 – o, se si vuole, fino  al ‘Cuarto alzamiento carapintadas’ del dicembre ’90, ispirato dal colonnello Mohamed Alí Seineldín contro il vertice dell’Esercito e l’ingerenza del potere politico negli affari militari, sanguinosamente represso dal Presidente Menem – furono decenni di colpi di Stato, di tentativi di golpe, di asonadas, di regolamenti di conti tra le diverse anime delle Forze Armate, che seminarono di lutti e divisioni l’Argentina, che discendevano dalla convinzione di molti ufficiali di avere una sorta di ‘naturale diritto/dovere’ a governare o tutelare da vicino i governi civili del proprio Paese, oltre gli interessi della corporazione. Va da sé che spesso i comandi castrensi attuarono su spinta e pressione di civili, fungendo da improprio elemento di ricambio politico, non rifiutando la democrazia rappresentativa, purchè debitamente ‘purificata’.

Se Mussolini era stato il  ‘modello esterno’ di Perón, quello nazionale fu Rosas e con lui quel tipo di cultura politica – definita da alcuni ‘populismo oligarchico’, almeno per il XIX secolo – che delega la somma del potere nelle mani ed energia di un caudillo, che opera sovente al di sopra delle leggi, interpretando i bisogni e le aspirazioni della sua gente per ‘trasmissione emotiva’ più che attraverso strumenti istituzionali, il che valeva un po’ per tutta l’America Latina. Il generale tornò al potere troppo tardi per realizzare i suoi programmi, in una Argentina in preda ad una acuta crisi etica e politico-sociale. Appare pure incontestabile che al posto del Paese prospero, ordinato, ereditato nel ’46 (ancorchè socialmente arretrato), egli  lo lasciò in pieno marasma,  avendo pure perso la competizione col Brasile per la supremazia nel Subcontinente. La sua figura appare più tragica che grande, in quanto incarnò più volte la speranza argentina e puntualmente finì con deluderla. Formulò l’idea della “Terza Posizione” in politica estera ed in economia e dovette constatare la sua  inviabilità. Orgoglioso e zelante militare di carriera si trovò contro, animate da avversione profonda, le Forze Armate della sua Nazione. Aveva sognato un’Argentina forte, rispettata e chiuse gli occhi su di un desolante panorama di divisioni e decadenza. Non a torto ha notato il suo maggior biografo, Félix Luna, che il destino fu assai benigno con Péron: “Nel ’55 il golpe lo salvò dal dover cancellare quanto aveva promesso e proclamato; nel ’74 la morte gli risparmiò di dover annientare le forze maligne che egli stesso aveva risvegliato”. I guerriglieri di sinistra, le squadre speciali, che non esitavano ad uccidere e sognavano “la patria socialista”, ma che egli utilizzò con cinismo, ben sapendo che la tradizionale destra peronista (i sindacati) era disposta a venire a patti con il governo di turno. Eppure, nonostante ciò, il mito e la forza politica, figlia di quel mito, gli sopravvissero. Il peronismo divenne un radicato sentimento che si vota.

L’arrivo dell’antipolitica con Milei

Dalla vittoria nelle elezioni presidenziali dello scorso novembre, Javier Milei, oggi Presidente della Nazione,  si è convertito nel massimo oppositore del peronismo, del sistema K (Kirchner) in particolare. Sosteneva il giornalista di Clarín, Nicolás Wiñazki, poco più di un anno fa, il 27.1.2023, in un’intervista a El País di Montevideo con Carlos Tapia: “Argentina quebró, por eso se van a Uruguay los empresarios”, analizzando un movimento che ormai si mobilitava non su una base ideologica, ma solo con l’obiettivo di mantenere il potere (non credo sia necessaria la traduzione):

‘En Uruguay a veces cuesta entender el peronismo, quizá sea porque los partidos están organizados de forma diferente. ¿Cómo lo definiría? El peronismo es todo y nada al mismo tiempo. Los peronistas suelen decir que para ser peronista solo alguien tiene que decir que es peronista. No importa la ideología. Es una ideología gelatinosa, o como se dice ahora: absolutamente líquida. ¿El kirchenrerismo, entonces, es solo una versión del peronismo? Sí, pero una muy particular. Muy radicalizada. También es cierto que usan los mismos sistemas que Perón, como el control de precios. Pasaron 70 años y se hace lo mismo. El peronista toma algunas cosas de Perón, pero va cambiando en función de sus necesidades. El peronismo tiene un jefe y los demás lo siguen. En el peronismo vale todo. Hoy el partido en sí es una cáscara vacía. La sede central del peronismo está vacía: no va nadie, no se reúnen, se eligen autoridades a la bartola. El poder se ejerce de hecho y lo tiene, es Cristina. No precisa la estructura partidaria para ser la líder…Es que también ahí hay otros matices. Ella es peronista de Evita, es decir del ala más combativa. Cuando a ella unas peronistas históricas le pidieron dinero para un monumento a Perón, les dijo: para ese viejo de mierda no pongo un mango. Después está la Cámpora, que es la agrupación juvenil de los Kirchner, de Máximo Kirchner sobre todo, pero la jefa es Cristina. La Cámpora incluso hace como una exaltación de los 70, de la lucha armada, de los Montoneros, y eso no coincide con el pensamiento de muchos otros en el gobierno. Es que lo que tenemos ya no es una coalición, es una colisión. El presidente y la vice no se hablan. ¿En qué situación está hoy el kirchnerismo? En el ocaso. Es interesante que la oposición tampoco tenga un corpus ideológico propio; conviven demasiadas formas de pensamiento. Y se es peronista o antiperonista. Eso es una victoria cultural del peronismo. Ellos todo el tiempo juegan con esa antinomia, generando una grieta importante en la sociedad, polarizándola como nunca. Para el cristinismo el otro es un enemigo; no es rival ni adversario, es un enemigo que complota en su contra’.(https://www.elpais.com.uy/informacion/politica/nicolas-winazki-argentina-quebro-por-eso-se)

         

Clarin pubblicava, il 25.8.2023, un’interessante intervista con lo storico italiano Loris Zanatta, già citato, dopo la vittoria di Milei nelle Primarie (Paso) di agosto: “El voto por Milei es contra el Papa”.                                  

‘Occorrerà dirlo: il trionfo di Milei è un’enorme sconfitta del Papa’, inizia Zanatta, i cui libri recentemente pubblicati sono Puntero de Dios e El Papa, el peronismo y la fábrica de pobres, che percorrono 10 anni di pontificato.

¿In che senso il voto a Milei castiga Bergoglio?

– L’ideología del povero come archetipo della purezza ha stancato. La maggioranza della gente non lo sopporta più. È stato un voto contro la retorica nazional-popolare del buon popolo argentino, cattolico e fedele, il popolo mitico. E che il povero è, per definizione, solidale e conserva i valori morali della comunità. Il Papa, intanto, ha creato una Chiesa argentina a sua immagine e somiglianza. Tutti i vescovi sono gli operatori di tale ideologia’.

(https://www.clarin.com/revista-n/loris-zanatta-voto-milei-papa-_0_zU4I41GC7X.html).

Javier Milei (1970), sedicente liberal-libertario, quindi anarcocapitalista, leader dell’inedito spazio politico La Libertad Avanza, dall’assunzione dello scorso dicembre ha esibito finora un attivismo esasperato e radicale, l’intransigenza aggressiva dell’outsider, rivendicando ch’egli ‘non è un politico e che disprezza la politica’, generando continui conflitti con quella che lui denomina ‘la casta’, non ricercando mai la via del dialogo, preferendo lo scontro aspro, con connotazioni messianiche, volto al cambio strutturale dello Stato. Non pochi, anche a lui vicini politicamente circa le necessarie grandi riforme, s’interrogano ogni giorno sulla saggezza e visione dell’eccentrico nuovo Presidente – in un momento difficilissimo della storia argentina, con un’inflazione alle stelle, una società fratturata, interessi corporativi scandalosi nel settore pubblico, nell’assistenza, corruzione e criminalità sfrenate, oltre 60% di poveri – sulla viabilità di una leadership inedita, con un pugno di rappresentanti nel Parlamento e neppure un Governatore. Un Presidente che apre molti fronti di lotta allo stesso tempo, con una personalità bizzara ed anticonformista, che impone un severissimo ajuste incurante del costo sociale, che rischia di essere schiacciato dall’establishment politico-sindacale. Intanto sia lui, sia vari governatori, divisi irremediabilmente sui ‘trasferimenti’ alle Province che Milei vuole tagliare, chiudendo i rubinetti, strillano e presentano le loro ragioni alla Giustizia, dopo una raffica d’insulti reciproci… Non pochi osservano che i politici esistono per discutere, polemizzare, ma anche per dialogare e cercare avvicinamenti, avendo come finalità il bene comune, non suonare alle porte delle caserme (come accadde fino al 1976) e neppure a quelle dei Juzgados di oggi. Un triste teatro della politica. Dicono che Giulio Cesare coniò il famoso: Divide et Impera. Milei ‘el loco’ fa il contrario. Compatta ed ingrandisce il fronte dei suoi nemici con avversari moderati, alleati che osano dissentire in qualcosa. Milei rivendica il suo obiettivo del ‘deficit zero’ e la sua appartenenza all’anarcocapitalismo: una teoria politica ed economica – mai messa in atto – sviluppatasi nella seconda metà del XX secolo che ha il suo massimo esponente nell’economista della ‘Scuola Austriaca’ Murray Newton Rothbard (1926–95). Gli anarcocapitalisti auspicano il superamento degli Stati nazionali, proponendo come alternativa un sistema economico-capitalista laissez-faire in cui tutte le decisioni sono lasciate all’iniziativa dei singoli proprietari. ll termine ‘anarcocapitalismo’ è stato coniato da Karl Hess. È apparso per la prima volta nel suo manifesto The Death of Politics, pubblicato nel marzo 1969. I teorici anarcocapitalisti sostengono che il liberalismo sia statalista, per tale motivo la maggior parte dei teorici lo rifiuta. Noam Chomsky, socialista libertario, al riguardo è stato molto critico:

L’anarcocapitalismo è un sistema dottrinale che, se mai implementato, porterebbe a forme di tirannia e oppressione che hanno pochi eguali nella storia dell’umanità. Non c’è la minima possibilità che le sue idee (a parer mio orrende) possano essere implementate, perché distruggerebbero rapidamente ogni società che avesse fatto questo errore colossale’. (https://it.wikipedia.org/wiki/Anarcocapitalismo).

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Gianni Marocco

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