Konrad Lorenz e la nozione (ecologista) del limite

L’uomo moderno, rompendo il grande equilibrio tra uomo e natura raggiunto nei secoli medievali, ha preteso di liberarsi di qualsiasi limite e grazie alle macchine e alla civiltà industriale ha creduto di poter produrre e consumare senza limiti

Konrad Lorenz

La grande scoperta, o per meglio dire, la grande riscoperta delle filosofie dell’ecologia è la nozione di limite. C’è una legge semplicissima enunciata a chiare lettere da Konrad Lorenz, secondo cui non ci può essere crescita infinita in un mondo finito, pena la catastrofe. E naturalmente il concetto vale anche per l’abnorme crescita demografica, che può rendere cronici e drammatici i processi di degrado con buona pace della dignità della persona. 

L’uomo vive in un territorio inesorabilmente limitato, il pianeta Terra, con i suoi 51 miliardi di ettari, di cui due terzi sommersi. L’uomo moderno, rompendo il grande equilibrio tra uomo e natura raggiunto nei secoli medievali, ha preteso di liberarsi di qualsiasi limite e grazie alle macchine e alla civiltà industriale ha creduto di poter produrre e consumare senza limiti, senza badare alla limitatezza delle risorse naturali. Sono stati ignorati gli allarmi lanciati dagli scienziati negli anni settanta del XX secolo, che hanno visto la fioritura dei movimenti ambientalisti e del pensiero ecologista. 

Certamente, come osserva Serge Latouche, i limiti sono nel contempo arbitrari e necessari: «siamo prigionieri di un piccolo pianeta la cui situazione eccezionale nel cosmo ha permesso la nostra comparsa. D’altra parte la nostra intelligenza, non meno eccezionale, ci permette di adattarci a una grande varietà di situazioni, ma non ci autorizza a fare tutto né a conoscere tutto». 

Il limite è iscritto nella Natura e nella condizione umana. Molti degli  antichi miti ci ammonivano a non oltrepassarli. Nell’Antico Testamento la sfida al cielo portata avanti con la costruzione della torre di Babele si conclude con la confusione delle lingue. E, tra i tanti miti della grecità classica che potremmo citare, ricordiamo il mito di Fetonte, figlio di Apollo, abbattuto da una folgore di Zeus per aver condotto il carro del sole troppo vicino alla terra devastando la Libia, che da allora diventò un deserto. Un’eco di questo mito si trova nel canto IV del Purgatorio di Dante, laddove dice: «la strada che mal non seppe carreggiar Fetòn». 

L’assenza di limiti, l’esplosione demografica e consumistica, il saccheggio sistematico delle risorse, prima o poi si ritorcono contro di noi, si pagano con l’accelerazione del cambiamento climatico, col crescente dissesto idrogeologico, con siccità e alluvioni, con nuove pandemie, con i flussi migratori incontrollati, con gli effetti deleteri dell’inquinamento, con il disordine e la disperazione crescenti, col «fallimento bruciante della promessa di felicità» (Serge Latouche).  

La globalizzazione, che è l’ultima tappa del capitalismo in quanto «permette di investire e disinvestire dove si vuole e quando si vuole, in spregio degli uomini e della biosfera», sottomette la sfera politica a quella economica, cancella di fatto le frontiere, i confini, gli stessi Stati nazionali, che continuano però a sussistere come macchine al servizio di una oligarchia plutocratica mondiale. 

D’altra parte, come riconosce il teorico della decrescita, «le frontiere, per quanto arbitrarie possano essere (e c’è da sperare che lo siano il meno possibile), sono indispensabili per ritrovare l’identità necessaria allo scambio con l’altro. Al contrario di quello che sostiene la tesi mondialista, non c’è democrazia senza capacità del corpo dei cittadini, a tutti i livelli, di darsi dei limiti». 

Scrive, non a torto, Marcello Veneziani: «In realtà il limite definisce e garantisce la realtà, i confini sono come i lineamenti del volto che danno una fisionomia a ciò che ci è caro, un’inconfondibile identità».

Dalla loro comparsa sulla Terra tutti i gruppi umani sono vissuti all’interno di territori circoscritti da limiti. Gli insediamenti umani dipendevano strettamente da elementi naturali come sorgenti, fiumi, colline, mari. Non a caso le grandi civiltà che si sono susseguite nella storia, la civiltà mesopotamica, quella egizia e quella romana si sono sviluppate lungo dei fiumi. La stessa cinta di mura che chiudeva le città rappresentava uno spazio sacro, oltrepassare il quale in armi, come ci insegna il mito della fondazione di Roma, poteva costare caro. Con la civiltà industriale tutto cambia, si ignorano i fattori naturali, si costruisce dovunque e comunque, si distruggono boschi e campagna fertile, si consuma il suolo come se fosse inesauribile. Le stesse città si trasformano in megalopoli, dove ogni contatto con gli elementi naturali è bandito. 

Di fronte all’azione disgregatrice e nociva del turbo-capitalismo gli ecologisti, in particolare gli americani Kirkpatrick Sale, Gary Snyder e Wendell Berry hanno elaborato la nozione di bioregione, vale a dire di regioni dove le acque, gli uomini, gli animali, le foreste formano un insieme geopolitico unitario e armonioso. Geografia e geologia, ecologia, storia e politica si intrecciano strettamente, scrivono insieme le grafie terrestri. E che cosa sono le bioregioni se non piccole patrie?

«La patria non declina con la globalizzazione, perché la patria è il tuo paese, la natura che ti parla nella tua stessa lingua, la storia che ti racconta la tua stessa memoria, la vita da cui discendi e che da te discende. Anche se vivi in un mondo senza frontiere, e ti sposti o traslochi, quel luogo rimane speciale» (Marcello Veneziani).

Scriveva nel 1954 in uno dei più significativi saggi de L’estate Albert Camus, dopo aver confrontato il pensiero greco con quello moderno: «noi manchiamo di quella fierezza dell’uomo che è fedeltà ai propri limiti, amore chiaroveggente della propria condizione». 

È, dunque, ineluttabile la catastrofe? Riusciranno gli ecologisti a far riacquistare all’uomo comune e alla politica questa fierezza? Ad impedire che il capitalismo continui a devastare il mondo? A far ritrovare, come auspica Alain de Benoist,  un’amichevole convivenza tra l’uomo e la Natura?  

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Sandro Marano

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