Fenomenologia di Berlusconi dalla Standa alla politica passando per le tv

La parabola di un gigante dell'impresa tra politica, privato e immaginario degli italiani che ne appressavano il piglio coraggioso

Silvio Berlusconi

Quando Berlusconi disse che fra Fini e Rutelli, al ballottaggio per l’elezione del sindaco di Roma, avrebbe scelto il primo, andai a fare la spesa alla Standa. A quell’epoca mi servivo solo all’Esselunga, quella del vecchio Caprotti di “falce e carrello”, che per fare concorrenza alle Coop rosse teneva bassi i prezzi in tutta la Toscana. Con quell’umile scelta ancillare volli però testimoniare la mia solidarietà a quell’imprenditore di cui non ero stato mai un estimatore, ma che aveva compiuto una scelta coraggiosa con cui sfidava quasi quarant’anni di conventio ad exludendum. Debbo confessare che tornai presto all’Esselunga: la Standa, il cui acquisto era stato uno dei peggiori affari di Berlusconi e della quale si sarebbe liberato saggiamente di lì a poco, era ben poco allettante; le commesse, provenienti dalla precedente gestione Montedison, si sentivano funzionarie di un ministero e consideravano il cliente un postulante. Ma la simpatia nei confronti del “Cavaliere Nero” rimase, pur fra gli alti e bassi legati alle diverse fasi della sua azione politica.

Non so fino a che punto influì su questo sentimento la gratitudine nei confronti del cosiddetto sdoganamento della destra postfascista. Questa senz’altro esercitò un’influenza su chi come me aveva avuto i suoi vent’anni segnati dall’antifascismo militante e sicofante. È vero, infatti, che a sdoganare il Msi erano stati gli elettori; ma la politica è un gioco più simile agli scacchi che alla dama: la strategia conta più della tattica. Non basta “mangiare” le pedine dell’avversario: bisogna saper dare con poche mosse scacco al re. Avere riportato ottimi risultati elettorali da Roma in su poteva essere motivo di soddisfazione nella destra, ma rischiava di rimanere senza seguito, o addirittura di dare adito a una nuova persecuzione, come quella che aveva accompagnato l’exploit elettorale della destra nazionale nel 1972 (e chi aveva vissuto quegli anni lo ricordava, e temeva che sarebbero tornate a esplodere le bombe sui treni). Era molto più importante entrare in un’alleanza elettorale in grado di conseguire la maggioranza dei seggi in Parlamento e di conseguenza di andare al governo; e questo lo avrebbe consentito solo Berlusconi.

La destra sdoganata da altri

In realtà, il vero “sdoganamento” del Msi era in realtà legato a tre persone, di ben diversa caratura intellettuale e morale. Una era Renzo De Felice, che ebbe il grande merito non di riabilitare, ma di “storicizzare” il fascismo, incardinandolo nella storia d’Italia. Non a caso, una delle frasi più intelligenti di Fini agli albori della nascita di Alleanza Nazionale fu che non c’era più bisogno di un partito che difendesse il fascismo, perché ormai il fascismo si difendeva da solo. L’altra fu Bettino Craxi, che nel 1983, incaricato di formare il governo, aprì le consultazioni anche a Giorgio Almirante; fu mal ricambiato dieci anni dopo dai ragazzacci che tirarono le monetine contro la sua auto davanti all’Hotel Raphael, ma si sa, in politica (e non solo) la riconoscenza è la virtù di chi deve ancora chiedere qualcosa. La terza fu, paradossalmente, il peggior nemico di Craxi: Antonio Di Pietro che, delegittimando per via giudiziaria la prima repubblica, fece rimpiangere a parte degli italiani Mussolini o, in certe aree del Sud, i Borboni.

Con un po’ di cinismo, si potrebbe aggiungere che il quarto sdoganatore del Msi fu Soros. Senza la sua cinica speculazione sulla lira, che insieme ai parametri di Maastricht mise in crisi il nostro Stato sociale, gli italiani  se avessero potuto continuare a pensionarsi a cinquant’anni e a farsi i loro bravi quindici giorni l’anno di cure termali, avrebbero continuato a chiudere un occhio sulle marachelle della vecchia classe dirigente, come un marito “comodo” fa finta di non conoscere i tradimenti della moglie, se costei continua ad assicurargli camicie stirate e tovaglia imbandita la domenica.

I meriti politici

Berlusconi ebbe il merito di rischiare il tutto per tutto e mettere in piedi, fra enormi difficoltà, una coalizione fatalmente eterogenea, fra l’ala nordista di Bossi e quella sudista del Msi, in cui Forza Italia fece da collante, sottraendo potenziali elettori all’uno e l’altro schieramento, ma consentendo a entrambi di entrare al governo. La sinistra non glielo perdonò, ma forse avrebbe dovuto non perdonarsi essa stessa di averlo messo in condizioni di scendere in campo. Il “cavaliere nero” non aveva la vocazione del politico, ma del manager; non era una reincarnazione di Mussolini, tutt’al più era anti-anti-fascista come larga parte dei moderati; era un figlio degli anni Sessanta, non degli anni Trenta; amava il doppiopetto, non la camicia nera. Solo quando capì che la sinistra – che lo odiava sin dai tempi del lodo Ciarrapico sulla Mondadori – avrebbe fatto di tutto per metterlo in un angolo, approfittando anche della pesante esposizione con le banche del gruppo Fininvest, decise di scendere in campo. Come il feticista secondo Karl Kraus è un poveraccio che vorrebbe un piede e si deve accontentare di una donna intera, Berlusconi avrebbe forse voluto godersi in santa pace le sue aziende, e invece dovette accontentarsi dell’Italia, almeno nei momenti più felici della sua carriera politica. Non fu però colpa sua, ma del complesso di superiorità morale della sinistra postmarxista, che dopo la caduta del Muro, invece di spargersi il capo di cenere per avere sostenuto o meglio essersi fatta sostenere e sostentare da un regime criminale e liberticida come quello sovietico, si convinse di avere il diritto morale di governare l’Italia: quel diritto che nella sua vulgata le era stato conculcato dal fattore Kappa, dalla Gladio, dalle mene della Cia, e non dal fatto che, in libere elezioni, la regolarità del cui svolgimento era controllata da miriadi di puntigliosi compagni rappresentanti di lista, gli italiani avevano mostrato col voto di non avere nessuna intenzione di essere governati dal Pci e dai suoi satelliti.

La persecuzione giudiziaria

Poi, le cose andarono come andarono, fra gli alti e bassi che tutti conosciamo. Berlusconi dovette subire una persecuzione giudiziaria senza precedenti, persecuzione resa possibile sia dall’estrema aleatorietà del sistema giurisprudenziale italiano, in cui l’assenza del precetto dello stare decisis rende arbitraria l’interpretazione di una norma, sia da un’aberrante legislazione sui pentiti che, nata per fronteggiare il terrorismo, da provvisoria è divenuta definitiva, sia dalla politicizzazione della magistratura, o meglio di quella parte della magistratura che scelse di occupare posizioni strategiche nelle procure. 

Qualsiasi altra persona avrebbe finito per crollare, barattando magari con un salvacondotto giudiziario la fine del suo impegno politico, specie quando alla persecuzione giudiziaria si sommarono i morsi di un male che un tempo veniva considerato incurabile. E invece il Cavaliere non si tirò mai indietro, anzi fu il vero grande artefice delle vittorie del centrodestra, così come Fini per ben due volte fu causa indiretta delle sue sconfitte: la prima nel ’96, quando rinunciò alla desistenza con le liste di Rauti, mentre l’Ulivo si accordava con Bertinotti; la seconda dieci anni dopo, quando portò al voto un partito in crisi per le sue esternazioni sul “male assoluto”, e anche sul voto amministrativo agli extracomunitari. 

Certo, anche Berlusconi commise molti errori, o più spesso li commisero i suoi fiancheggiatori: avere alla vigilia del voto nel ’96 sollevato la questione dell’abuso del congedo di maternità non portò voti al centrodestra in un paese, già allora, di primipare tardive, e avere scatenato un gran battage sulla casa di Montecarlo, una marachella in confronto ai veri scandali, rese insanabile lo scisma di Fini. Ma la sua capacità di risollevarsi dopo ogni caduta, di affrontare con animo equo la malattia, la persecuzione giudiziaria e una campagna di odio senza precedenti – fra le quali non escluderei a priori l’esistenza di un nesso – meritano un rispetto che va ben oltre le frasi di circostanza, l’untuoso e ipocrita “de mortuis nisi bene”.

La classe dirigente di Forza Italia

Il vero problema, a nostro avviso, è sempre stato per Forza Italia la formazione e la selezione di una classe dirigente. All’inizio della sua avventura, Berlusconi lo risolse travasando nel nuovo movimento i quadri delle sue aziende, con l’aggiunta di ex esponenti di altri partiti, incluso il vecchio Msi (è il caso di Domenico Mennitti) o di figure cooptate dalla cosiddetta società civile (e anche militare: non mancarono i generali sensibili al suo fascino “decisionista”). La soluzione, fatalmente provvisoria, funzionò, ma presto il nuovo partito dovette subire da un lato l’assalto di riciclati che uscivano dalle seconde o terze file della prima repubblica, dall’altro di quelli che venivano chiamati i “berluschini”: professionisti senza clienti, imprenditori col complesso del padrone delle ferriere, commercianti protestati, bottegai felici di convertire le mille lire in un euro (e non avere compiuto una campagna contro certi abusi fu una delle maggiori colpe del secondo governo Berlusconi e una concausa della sconfitta elettorale del 2006). Siccome la legge di Gresham non è applicabile solo all’ambito economico, anche in Forza Italia la moneta buona finì per cacciare spesso la cattiva, come dimostra la purtroppo effimera stagione dei “professori”. Ho potuto constatare questo fenomeno in piccolo nella mia Firenze. Se nel 1994 la personalità più eminente di Forza Italia era un giornalista e scrittore di valore come Umberto Cecchi, futuro direttore della “Nazione”, due anni dopo il suo posto era preso da un onesto funzionario Mediaset, tanto onesto che ci rimise anche di persona, finché lo scettro non passò a Denis Verdini, la cui storia, ahimè, è sin troppo nota.

Il fatto è che Berlusconi, abilissimo nel selezionare e motivare i dipendenti delle sue aziende, non si rivelò altrettanto capace nel selezionare la sua classe dirigente, anche perché un vero politico non è un dipendente e le sue capacità sono diverse da quelle di un semplice venditore. I nodi credo siano venuti al pettine nel 2008, l’anno che dopo la caduta del governo Prodi avrebbe dovuto segnare il trionfo di Berlusconi, oltre tutto leader di un partito che nasceva dalla fusione (in realtà molto a freddo) di Forza Italia e Alleanza Nazionale. In un contesto che vedeva, soprattutto col pontificato di papa Ratzinger, il Vaticano tutt’altro che ostile al centrodestra, anche per la sua difesa dei “valori non negoziabili”, Berlusconi emarginò una figura di alto spessore etico-culturale come Pera, e scelse un laicista come Verdini quale coordinatore nazionale del partito; promosse a ministeri chiave giovani donne prive di adeguate competenze e nominò ministro della Funzione pubblica un ex socialista che non trovò di meglio che insultare gli statali chiamandoli “fannulloni”, disamorando fra loro persino chi aveva votato per il centrodestra. Nota bene: tutte queste persone avrebbero prima o poi lasciato Berlusconi (non voglio usare il melodrammatico “tradito”, ma il senso è quello), per passare ad altri lidi, con l’eccezione di Brunetta, che abbandonò la politica e basta.

Silvio privato

Non so quanto sulla svolta laicista di Forza Italia abbia influito la vita privata di Berlusconi, e quanto pure in questo caso valga il vecchio detto “chi non può vivere come crede, finisce per credere come vive.” Fedele alla grande e terribile massima che campeggiava nei tribunali asburgici – “simul judicaveritis, simul judicamini” – mi astengo dall’esprimere giudizi morali sui grandi uomini; e Berlusconi senza alcun dubbio lo è stato. Non posso però fare a meno di constatare che nella scelta delle consorti o comunque delle conviventi (faccio astrazione per l’ultima, che non conosco) Berlusconi si rivelò sempre meno accorto. Se la prima moglie meriterebbe di essere additata a modello anche solo per la sua discrezione e per lo splendido necrologio pubblicato sul “Corriere” martedì scorso, è difficile non immaginare che la Pascale non abbia esercitato un’influenza negativa su di lui. Sbaglia però chi accusa Berlusconi di avere oltraggiato le donne; penso semmai che siano state le donne in molti casi a oltraggiare lui, usandolo come bancomat, sfruttando le sue debolezze senili, ricattandolo. Quanto al caso della minorenne Ruby Rubacuori, un giudice non prevenuto avrebbe potuto facilmente liquidarlo travasando dal diritto civile al diritto penale il vecchio brocardo “malitia supplet aetatem”. Ma di magistrati (e magistrate) non prevenuti Berlusconi ne ha incontrati ben pochi. E molti di quelli prevenuti non avevano nemmeno studiato il latino.

I limiti nel rapporto con la casamatta culturale

Se una vera critica debbo rivolgere a Berlusconi, questa riguarda il suo ruolo come editore della carta stampata. Per una sorta di deformazione professionale, visto che i soldi li aveva fatti con la cultura pop della televisione commerciale, il Cavaliere fu sempre refrattario a utilizzare il suo impero editoriale per ribaltare l’egemonia culturale marxista. A parte la pubblicazione del Libro nero del comunismo, la politica culturale della Einaudi e della Mondadori non è cambiata quando le due case editrici sono passate sotto il suo controllo. Può darsi che, sotto un profilo elettorale, avesse ragione: le casalinghe che vedono la Tv già di prima mattina votano quanto i professori. E senza dubbio Berlusconi ha saputo sfruttare come nessun altro in Italia le opportunità fornite dalla “galassia McLuhan”. Non a caso il suo declino è coinciso con l’avvento di un’altra galassia, la galassia Zuckenberg: il mondo di internet su cui fondò le proprie fortune quel movimento pentastellato di cui non comprese le dirompenti potenzialità. 

Certo, con le sue Tv private Berlusconi ha contribuito alla americanizzazione della nostra società e ad uno sradicamento dei valori tradizionali: serie come Dallas o Dinasty hanno banalizzato l’adulterio, per tacere del Grande Fratello. Ma occorre riconoscere che quel processo era già da tempo in atto e che anche la Tv di Stato, dalla famosa esclamazione fallica di Zavattini a “Voi e io a radio anch’io”, non era più quella pedagogica dell’era Bernabei.

Il campo in cui il Cavaliere ha dimostrato le sue migliori qualità, è stata la politica estera. Basterebbe avere promosso e organizzato il vertice di Pratica di Mare, facendo stringere la mano Bush e a Putin, per fare di lui un autentico statista destinato a passare alla storia. Se il suo sogno di aprire le porte della Nato anche alla Russia si fosse avverato, l’Europa e il mondo non sarebbero stati trascinati in un conflitto assurdo, che rischia di sfociare in una terza guerra mondiale combattuta con testate nucleari.

Purtroppo, in politica estera, i peggiori nemici di Berlusconi furono i leader del centrodestra europeo, dalla fedifraga pupilla di Kohl Angela Merkel al velleitario Sarkozy, al grigio Chirac, tanto brillante vent’anni prima come sindaco di Parigi quanto mediocre come presidente vent’anni dopo. E aver dovuto subire il conflitto contro Gheddafi costituì per il Cavaliere uno dei peggiori scacchi della sua carriera politica. 

Le gaffes

Un discorso a parte meriterebbero le cosiddette gaffes di Berlusconi. Ho sempre sospettato che molte di essere fossero intenzionali, come quelle del principe Filippo d’Edimburgo, felice di uscire dal rigido cerimoniale di corte,  o magari di Mike Bongiorno, che ostentava un’incultura che non aveva per rassicurare il suo pubblico. Dire che Mussolini aveva mandato gli oppositori in villeggiatura o parlare di Romolo e Remolo era un modo per strizzare l’occhio non ai neofascisti, ma agli insofferenti della vulgata antifascista, o all’ignoranza di un popolo in cui sono in pochi, anche fra i laureati, grazie anche alle campagne contro il nozionismo, a ricordarsi a memoria il nome dei sette re di Roma.

Dopo questo lungo sproloquio, a chi avesse avuto la pazienza di seguirmi sino in fondo potrebbe affacciarsi un legittimo interrogativo: “Ma, tornando indietro, questioni di commesse a parte, torneresti alla Standa?” Penso proprio di sì, ma non so quanto per merito di Berlusconi, e quanto dei vignettisti di Charlie Hebdo, che mi fanno rivalutare i talebani, o di una cattocomunista più bella che intelligente, che è riuscita a farmi rimpiangere Nerone. A farmi amare Berlusconi più delle apologie dei suoi beneficiati è stato e sarà ancora per molto l’odio fazioso e stupido dei suoi nemici, molti dei quali non sarebbero degni nemmeno di lucidargli le famigerate scarpe col tacco.

@barbadilloit

Enrico Nistri

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