E’ nelle librerie, per i tipi delle edizioni Arỹa, un significativo studio di Sandro Consolato intitolato, A Ovest con René Guénon (per ordini: arya.edizioni@oicl.eu, pp. 256, euro 26,00). Si tratta di una silloge di ampi saggi, già apparsi su riviste e pubblicazioni specialistiche, aggiornati e notevolmente ampliati. In essi, l’autore si confronta, da par suo e sulla scorta di vaste letture “tradizionali” lungamente meditate, con il tema, poco indagato, dei rapporti intrattenuti dall’esoterista francese con la Tradizione in Occidente. L’essenza del volume ci pare emergere dallo scritto che inaugura la raccolta, dedicato all’esegesi della dimensione spirituale della Romanità. Consolato dichiara di aver assunto nei confronti delle tesi guénoniane, nel corso del suo studio, un atteggiamento equilibrato, lontano dal rifiuto aprioristico delle posizioni del metafisico di Blois, così come dalla loro acritica assunzione. L’indagine è condotta attraverso l’utilizzo del “metodo tradizionale”, non discinto però dal riferimento alle acquisizioni delle scienze umanistiche.
Le stesse opere di Guénon sono il risultato di una siffatta commistione, chiosa l’autore. Nel breve spazio che qui ci è concesso, ci avvicineremo solo ad alcuni dei numerosi temi affrontati, con acribìa critica e acume filologico, dallo studioso calabrese. Il saggio dedicato alla Tradizione romana, mostra con chiarezza che, merito maggiore del pensatore transalpino, è da individuarsi nella sua lettura dell’uomo quale “animale simbolico”. Roma, nell’interpretazione guénoniana, è “Centro del mondo”. Il richiamo alla bianchezza che si evince nel nome di Alba Longa, madre dell’Urbe, testimonia l’importanza di tale centro spirituale. Del resto, il nome rovesciato di Roma, “Amor”: «equivale a “A-mors” […] all’ “immortalità” propria alla “Terra dei Viventi”,[…] al “Centro del Mondo”» (p. 21), al sua tratto ónfalico. Il bizantino Giovanni Lido, a proposito dei nomi di Roma, affermò che i tre nomi dell’Urbe erano: «“uno civile, ossia profano, Roma; un secondo sacro, Flora; il terzo arcano e segreto, Amor”» (p. 23). Probabilmente l’ultimo, era una “copertura” del reale nome segreto. A tale riguardo, non è casuale, per Guénon, che Numa collegato agli ancilia e ai Salii, sia nome che presenta l’inversione sillabica di Manu, legislatore primordiale.
A tali considerazioni, il francese fece seguire una svalutazione radicale dei Romani, incapaci, a suo dire, di effettiva intellettualità pura, metafisica; tesi questa, in palese contraddizione con l’idea di Roma quale Centro della Tradizione in Occidente. Scambiò l’operosità nel “mondo” dei Romani, il loro mos maiorum, con l’operare tecnico-pratico moderno e orizzontale. In realtà, chiosa Consolato: «l’“uomo romano” non lo si comprende nella sua integralità se non si riconosce in lui un vir integer, incarnazione vivente delle virtù divine della triade arcaica Giove, Marte e Quirino» (p. 33). Limiti e contraddizioni non dissimili si evincono nella lettura, afilologica e astorica, che Guénon fornisce di Giano. L’aspetto positivo di tale analisi va individuato nell’idea dell’esistenza di un terzo volto del dio “bifronte”: «per cui Giano avrebbe analogicamente le stesse funzioni di Shiva, sarebbe il dio del “Triplice tempo”» (p. 55). Il problema è che lo studioso francese applica all’iconografia del dio la sua unilaterale lettura dei rapporti sacerdozio-regalità, sbilanciati a favore della prima. Giano rex del Lazio arcaico, era detentore dell’imperium e al contempo pontifex maximus. L’unica chiave con la quale i Romani lo rappresentarono, non sottraeva a tale potestas divina la possibilità di aprire le due porte solstiziali e: «gli accessi al deva-yāna e al pitri-yāna» (p. 58).
Del resto, il pontificato massimo fu prerogativa degli Imperatori, pertanto, come colse Evola, l’assunzione di tale titolo da parte dei papi, fu un’usurpazione. Nessun papa ricevette tale consegna dalla “forma tradizionale” imperiale pre-cristiana. Risulta, pertanto, fuorviante l’asserita “continuità” guénoniana tra “paganesimo” e cristianesimo. Per quanto si riferisce alla “trasmissione”, avvenuta tra Collegia fabrorum, corporazioni medievali e Massoneria, essa può valere, come riconobbe Renato Del Ponte: «come “un’ipotesi di ricerca”» (p. 73). Guénon, pur non avendone avuto contezza, anche rispetto alla kultur ellenica, è debitore, per certi tratti, del riduzionismo, messo in atto nei confronti della classicità, dall’illuminismo. Consolato ricorda come Luciano Canfora abbia sostenuto che la vittoria del cristianesimo sia da attribuirsi alla sua progressiva paganizzazione, realizzata attraverso l’assorbimento di molti elementi politeistici vivi nella coscienza popolare dell’epoca. Il popolo, ben avrebbe dovuto saperlo Guénon, in certi frangenti storici, diventa testimone e latore “passivo” di verità pregresse. Le medesime verità tradizionali ancora vive in Virgilio e altri auctores. Non senza ragione Celso scrisse: «C’è un’antica tradizione, risalente all’inizio dei tempi, di cui si sono sempre interessati i popoli più sapienti» (p. 107). L’esoterista transalpino non capì, nota Consolato, che la nostra India non era il Medioevo, ma l’Impero di Augusto e dei Romani.
Negando l’esistenza di Libri sacri a Roma (l’Eneide lo era sicuramente), il tradizionalista non tenne conto del fatto che anche il latino fu trascrizione della “lingua degli uccelli”: il nome Virgilio, etimologicamente allude all’axis mundi: «su cui vengono a posarsi gli “uccelli del cielo”» (p. 124). Altrettanto interessanti sono gli altri scritti che costituiscono questo volume. Innanzitutto quello che si riferisce all’interesse di Guénon per Giuliano Kremmerz. Mentre il francese fu ferocemente critico nei confronti di altri “maghi” ed esoteristi, a rigurado del napoletano praticò una sorta di epoché, a causa delle limitate informazioni in suo possesso. In ogni caso, egli riteneva l’ermetismo esposto a pericolose deviazioni, in quanto veicolante una conoscenza di tipo cosmologico e non metafisico. Consolato ritiene, con Evola, che la Myriam non avesse natura né pseudo, né contro iniziatica e si augura che dopo la scomparsa di Kremmerz, altri abbia potuto tenere aperta la Via. In un altro saggio, si fa cenno all’interesse matematico del francese e a quello di Reghini. Entrambi, in questo specifico campo, miravano a: «riconnettere pure la scienza dei numeri a quella metafisica» (p. 174).
Il volume è chiuso da un attento esame delle tradizioni delle Americhe, con riguardo alla tradizione Pellerossa, cui il tradizionalista giunse attraverso le indicazioni di Coomaraswamy e Schuon; da un’apertura sul particolare Oriente rappresentato dalla tradizione copta d’Etiopia, di cui si occupò anche Evola e da uno studio sulla “futurologia” guénoniana, da cui si evince come il metafisico, muovendo dalla realtà di crisi del mondo occidentale, guardò all’avvenire dell’intera umanità. Un libro significativo, questo di Consolato. Nostro augurio è che possa indurre una revisione del guénonismo. A parere di chi scrive tale prospettiva dovrebbe lasciarsi alle spalle tanto l’approccio di filosofia della storia, quanto quello di teologia della storia (auspicato da Panunzio), per re-incontrare la physis, quale solo luogo del mostrarsi delle potestates divine.