La traduzione letteraria: un’arte conflittuale\2

Da Lotman a Ezra Pound, quanto è difficile tradurre la poesia senza tradirla

Trattiamo, ora, nello specifico, la “traduzione poetica”, la quale, come già riferito, è un atto del tradurre particolare, ossia, si differenzia – e in modo abbastanza netto – dalla traduzione in prosa.

Jurij M. Lotman, russo di S. Pietroburgo, scomparso nel 1993 e uno dei massimi rappresentanti nel campo della “semiotica della cultura” – ossia, la ricerca semiotica applicata alla metodologia degli studi letterari –, fondatore ed esponente di punta della Scuola Semiotica di Tartu, in Estonia, in una delle sue opere più citate e studiate, La struttura del testo poetico (1970), afferma che «l’arte è uno dei mezzi di comunicazione». Ciò perché «essa realizza un legame fra un trasmettitore e un ricevitore», ruoli che possono anche essere disimpegnati dalla stessa persona – in questo caso avremmo un sistema di «autocomunicazione» [cfr. LOTMAN, 1990: 13]. Lotman aggiunge che qualunque sistema, in grado di mettere in comunicazione «due o più individui, può essere definito come lingua». Ciò, non solo con riferimento alle «lingue naturali» e alle «lingue artificiali» – ossia, quelle create dalle diverse scienze per descrivere determinate fenomenologie –, ma egualmente ad altre specie di lingue, quali, ad esempio, quelle che concernono i costumi, il commercio, i rituali, la liturgia. Ne consegue, considerando la presenza di tali premesse, che pure l’arte fa parte di tale categoria, anche se – dà a intendere Lotman – in modo autonomo, poiché essa è di certo una lingua, ma una lingua “particolare”, in quanto possiede caratteristiche proprie che la distinguono dagli altri sistemi di comunicazione [cfr. IDEM: 13-15].

Poco più oltre, nello stesso saggio, dopo aver premesso come per lingua egli intenda «ogni sistema di comunicazione, che usi segni ordinati in un particolare modo», Lotman scrive:

 

«Il linguaggio poetico si presenta come una struttura di grande complessità. Esso è notevolmente più complicato delle lingue naturali. E se il volume d’informazione contenuto nel linguaggio poetico (in versi o in prosa: ciò non ha importanza) e nel linguaggio comune fosse uguale, il linguaggio artistico perderebbe il diritto di esistere e, indiscutibilmente, morirebbe. La questione si pone però diversamente: la complessa struttura artistica, creata col materiale della lingua, permette di trasmettere un volume d’informazione che sarebbe assolutamente impossibile trasmettere con i mezzi della struttura linguistica normale. Deriva da ciò che la data informazione (il contenuto) non può né esistere, né essere trasmessa fuori della struttura data. Ripetendo una poesia nel linguaggio comune, distruggiamo la struttura e, di conseguenza, non portiamo più al ricevente quel volume di informazione che è contenuto in essa» [IDEM: 17].

 

Fin qui Lotman, con il quale, in linea di massima, si può concordare, non senza, tuttavia, avanzare alcune riserve. Difatti, applicare all’analisi di un testo poetico – il quale è un atto di pura creazione individuale, così come una qualunque altra espressione artistica – una rigorosa metodologia strutturale, la cui caratteristica principale è il cosiddetto “principio d’immanenza” di saussuriana memoria (ossia, il limitare l’analisi linguistica agli “enunciati”, escludendo completamente le “enunciazioni”), comporta il grave rischio di far passare in secondo piano, a favore unicamente degli elementi strutturali del testo e della relazione che intercorre fra di essi, tutto quel che è “altro”. Ossia: quanto a chi crea il testo poetico, la soggettività, la coscienza, l’istinto, la creatività, l’ispirazione, le emozioni, in una parola, il vissuto del poeta; quanto al ricevente, la sensibilità, i gusti, le capacità d’interpretazione, la cultura, la prospettiva individuale, l’empatia, le contingenze emozionali e situazionali.

Il problema, a mio avviso, si pone nei seguenti termini: nel momento in cui la semiotica finisce per presentarsi come una teoria generale della cultura pecca, quanto meno, di “presunzione”.

È chiaro che non è mia intenzione fare una dissertazione sui fattori positivi o negativi, sui vantaggi o gli svantaggi che comporta l’applicazione dello strutturalismo linguistico all’analisi di un testo poetico. Ho solo voluto sottolineare, riportando alcune affermazioni di Jurij M. Lotman, come anche quei teorici e studiosi, i cui metodi d’indagine s’ispirano a sistemi “parascientifici” (quali quelli che si ricollegano alla semiotica, ma anche alla psicolinguistica e alla sociolinguistica) concordino tutti, se non sull’unicità del linguaggio poetico, quantomeno sulla sua complessità. Particolarità, queste, che senza dubbio, e come conseguenza diretta, caratterizzano anche la traduzione poetica.

Ciò premesso, sorge d’immediato un’incognita: è possibile, nel senso etimologico del verbo – dal latino traducere –, “trasportare” dei versi e tutto quel che li differenzia da un punto di vista semantico ed emozionale da una lingua all’altra?

Se accettassimo acriticamente le conclusioni cui è giunta la linguistica contemporanea dovremmo affermare che non è possibile. Ci troviamo di fronte ai più che noti e vecchi conflitti fra teoria e tecnica e, soprattutto, fra linguistica ed estetica. Inoltre, è indiscutibile, quanto alla traduzione poetica, come il suo studio sia in appannaggio esclusivo della linguistica solo nel caso che la poesia e, più in generale, la letteratura non siano studiate nella loro specificità, ma vengano inserite nel grande “calderone” di tutto quel che possa essere definibile in termini linguistici.

Tale pretesa egemonica da parte della linguistica è stata, tuttavia, nel corso delle ultime decadi, ampiamente confutata da molti studiosi. È il caso, ad esempio, del noto saggista e accademico francese George Steiner – figura di primissimo piano nella cultura internazionale e scomparso a febbraio di due anni fa –, il quale nella sua molto citata e, a mio avviso, imprescindibile opera After Babel. Aspects of language and translation (1975, 1992) dimostra i limiti della linguistica anche nel campo della traduttologia.

In un vero e proprio attacco frontale contro la linguistica contemporanea, e non solo con riferimento ai delineamenti dati da essa al problema della traduzione, ma, più in generale, all’uso che fa «della parola e categoria “teoria” applicata alla poetica, all’ermeneutica, all’estetica (e persino alle scienze sociali […])», Steiner scrive:

 

«Non esistono “teorie della letteratura”; non esiste una “teoria della critica”. Queste formule alla moda sono soltanto un bluff arrogante, un’appropriazione indebita, di una trasparenza patetica, dovuta all’invidia per il successo e il progresso della scienza e della tecnologia. Certamente, con buona pace dei nostri attuali maître à penser in bizantinismo, non esistono “teorie della traduzione”. Abbiamo invece descrizioni ragionate di procedimenti. Nei migliori dei casi, troviamo e cerchiamo di articolare, in alternanza, delle narrazioni di esperienza vissuta, delle notazioni euristiche o illustrative di un lavoro in fieri. Queste cose non hanno uno statuto “scientifico”. I nostri strumenti di percezione non sono teorie o ipotesi di lavoro in un senso scientifico che sarebbe verificabile o refutabile, bensì quelle che chiamo “metafore di lavoro”. Le migliori traduzioni non possono guadagnare niente dai diagrammi e grafici computerizzati e (matematicamente) puerili proposti da aspiranti teorici. La traduzione è, e sarà sempre, quella che Wittgenstein chiama “un’arte esatta”» [STEINER, 2004: 16-17].

 

Al di là del tono provocatorio utilizzato da George Steiner – che del resto è sempre stata una costante dei suoi interventi critici – e dell’essere d’accordo o meno con le sue affermazioni, una cosa è certa: la traduzione poetica, oltre a essere possibile, possiede una sua specificità.

A volte c’imbattiamo in traduzioni mal fatte, la qualcosa è dovuta essenzialmente a due fattori. In primo luogo, il testo (già lo è quello di “partenza”, ancor più lo sarà quello di “arrivo”!) è sempre caratterizzato da “conflitti”: fra sintassi e metro, metro e ritmo, suono e significato, ecc. In secondo luogo, la traduzione poetica – come scrive Emilio Mattioli, noto critico della traduzione e professore ordinario di Estetica, scomparso nell’agosto del 2007 – «è fra i modi dell’intertestualità uno dei più complessi e anche uno dei punti di tensione più alta fra le culture in contatto» [MATTIOLI, 2005b; 215]. Nonostante tali difficoltà e i risultati non sempre soddisfacenti, sono dell’avviso, tuttavia, che si debba a priori rifiutare – come precedentemente riferito – l’“obiezione pregiudiziale” sulla traduzione poetica. A un tempo, credo che si debba contestare il tentativo, da parte di molti critici e ricercatori contemporanei, di teorizzare, fino al limite estremo, l’atto della traduzione, quella poetica in particolare.

A questo punto, prima di proseguire, è necessario fare alcune avvertenze, due, per l’esattezza.

La prima è che – lo si sarà già intuito da quello finora da me riferito – qualunque teoria legata all’arte di tradurre, e in campo poetico soprattutto, mi lascia alquanto perplesso. Quando traduco versi, la mia “rotta”, per così dire, è tracciata dall’amore che ho per la poesia. Tradurre poesia, a mio avviso, è un atto che non può essere “codificato”. È semplicemente – nelle parole di Emilio Coco (ispanista e insigne traduttore della poesia italiana in spagnolo e viceversa) – «un atto d’amore verso il poeta e il testo, che comporta sacrificio, dedizione e tempo» [COCO, 1989: 273).

La seconda avvertenza è che non sono un poeta. Forse lo sarò in potenza, ma non ho mai composto dei versi. Né tampoco sono un filologo di professione. Quel che ho riferito finora e continuerò a riferire si deve, pertanto, a delle riflessioni, delle considerazioni personali, scaturite essenzialmente dalla mia esperienza di traduttore. Pur se a volte – e quando questo accade cito sempre la fonte – suffragate da testimonianze o di poeti o di studiosi emeriti, interessati ai problemi e metodi della traduzione.

Ezra Pound, in una sua pagina sulla traduzione, scrive:

 

«Si traduce la prosa, forse, per far circolare le idee, ma la poesia dà più vita. Traducendola, si stimola, si arricchisce la lingua, o almeno si deve. Non trovando un grosso equivalente, ma cercando la precisione, nel tradurre una parola o una frase, si estende la lingua che la riceve. La traduzione mette in evidenza il sonno, i punti pigri nella lingua ricevente, e la desta, l’agita.

Altrimenti la lingua muore.

Quando Dante aveva bisogno di una parola non preesistente, la fabbricava. E altri, come lui.

Fabbricando una parola al bisogno, si sbaglia, forse. Ma temendo di fabbricarla si fallisce, cioè si sbaglia ineluttabilmente. Questo “fare al bisogno” è tutt’altro che fare per desiderio di far novità […].

Nel tradurre non c’è bisogno che ogni parola risponda alla parola […]» [cit. in BONA, 1989: 140].

 

Affermazioni, queste di Pound, altamente illuminanti e che fanno riflettere.

Difatti, è evidente come quello traduttivo (anche nel caso di un testo letterario in prosa) non sia un processo binario, in cui a una parola della lingua di partenza deve corrispondere una parola della lingua d’arrivo. È contraddittorio pensare che il testo d’arrivo debba essere eguale a quello di partenza, poiché, per definizione, la traduzione è “trasferimento”, “passaggio”, ossia, l’immagine che la traduzione dà è “asintotica” e non “speculare”.

A un tempo, è indubbio che in un contesto poetico il traduttore debba giungere al “suo” testo conformandosi il più possibile a quello del poeta. In un’adesione, tuttavia, che implicitamente mantenga in se stessa tutto l’apparato esegetico che, per forza di cose, il traduttore deve possedere. In una parola, “fedeltà”, ma non fedeltà “asettica”, ossia, basata solo sulla traslitterazione, ma che tenga conto di un principio innegabile: una qualunque trasposizione in versi è sempre un “passaggio” da lingua poetica a lingua poetica, visto che, a mio avviso, condizione primaria della traduzione poetica è la “musicalità”, la “melodia ritmica”:

 

«Poiché il ritmo è soggetto, se un poeta trova il ritmo, trova il soggetto; se non lo trova, i versi che sta scrivendo non sono arte. E questo vale tanto per la scrittura letteraria “originale” quanto per quella in traduzione» [BUFFONI, 2005b: 19].

 

Tali presupposti (e non regole!) cui, credo, un buon traduttore si dovrebbe attenere, non possono essere codificati. D’accordo con George Steiner, sono dell’idea, pertanto, che non può esistere – con riferimento alla traduzione poetica, quantomeno – una “teoria” o, peggio ancora, una “scienza della traduzione”, poiché, come ha avuto modo d’affermare il grande Mario Luzi – anche lui traduttore (Shakespeare, Coleridge, Labé, Racine, Mallarmé, ecc.) –, l’atto della traduzione è un modus operandi puramente empirico (e, io aggiungo, “sensitivo”, un “prodotto” dell’anima) che non si può ricondurre ad alcun tipo di teorizzazione, come del resto una qualunque opera d’arte [cfr. LUZI, 1989: 147-148]. Credo che nessuno – oggi come ieri e in futuro – può o potrà insegnare in che modo si traduca (facendola) poesia, poiché la traduzione poetica è soggetta a motivi d’ispirazione analoghi a quelli della creazione propriamente detta.

Sicché – parafrasando Vittorio Sereni, altro grande poeta contemporaneo, com’è noto, nonché traduttore dal francese (Valéry, Char) e dall’inglese (Pound, W. C. Williams) –, che senso ha parlare di traduzione “letteraria-letterale” o “d’arte”, “bella-fedele” o “bella-infedele”? [cfr. SANSONE, 2005: 487]. È questo fondamentalmente un “falso” problema. È evidente come il massimo dell’aspirazione di un traduttore sia di conseguire un testo d’arrivo “bello-fedele”. Mi chiedo, però, è poi ciò sempre possibile? Credo di no. La qualcosa “giustifica” l’esistenza di un elevatissimo numero di traduzioni “zoppe”, ossia, parlando per metafora, con una sola gamba buona: quella della fedeltà al testo di partenza, in alcune, quella della bellezza del testo d’arrivo, in altre.

Stando così le cose, qual è la soluzione migliore? Per quanto mi riguarda, io sono per la “vibrazione melodica”. Se questa scaturisce da una traduzione fedele (pertanto, “letteraria-letterale”) mi congratulo con me stesso! Se per ottenerla, tuttavia, devo “tradire” non ho il minimo tentennamento. “Tradimento”, è evidente, sempre in un’ottica esegetica e che si realizzi solo a livello di interventi “generali”, quali: lo scambio di posizione di due lessemi (sostantivo e aggettivo, ad esempio) o di sintagmi o ancora, quando necessario, di interi versi; il ricorso alla sinonimia e alla sottrazione o addizione di elementi. Questo perché una traduzione poetica deve sottostare a un altro dei suoi principi, quello dell’ars combinatoria, o meglio, come afferma l’inglese Peter Newmark – uno dei maggiori studiosi contemporanei di teoria e pratica della traduzione ed egli stesso traduttore, scomparso nel luglio del 2011 –, nella sua oramai celebre opera Approaches to Translation (1981),

 

«la traduzione è sempre un compromesso, il raggiungimento di un equilibrio. Il traduttore deve valutare il grado di importanza dei significati, nelle forme e nei suoni del testo» [NEWMARK, 1988: 287-288].

 

Un’altra divaricazione – secondo alcuni, “estrema”! – strettamente correlata all’anteriore divaricazione (“fedeltà”/”bellezza”), è, sempre oggigiorno, quella che concerne la traduzione metrica, da un lato, e la traduzione ritmica (quindi, “libera”), dall’altro. Anche questo è, però, a mio avviso, un “falso” problema, una volta che la “vibrazione melodica” può essere conseguita sia con l’uno sia con l’altro tipo di traduzione.

È anche evidente, tuttavia, come, accanto a questo “falso” problema, ve ne sia un altro meno “falso”. Mi riferisco ai “sistemi linguistici”, visto che perfino lingue “geneticamente sorelle” (è il caso, ad esempio, dell’italiano, del portoghese e dello spagnolo) mostrano differenze. La qualcosa complica la vita al traduttore allorquando, volendo forzatamente riprodurre la stessa melodia metrico-ritmica (ma sarà poi la stessa, mi chiedo?) del testo di partenza, va a mettersi, non di rado, in un vicolo cieco, come – parlando ancora una volta per metafora – la coperta corta che lascia scoperti i piedi, se viene tirata su, la testa, se viene tirata giù. Qualcuno potrebbe obiettare: le coperte non sono tutte corte! È vero: quando si ha, però, la fortuna di trovarle!

A questo punto, si rende necessaria una considerazione. Indubbiamente, vi è una certa differenza fra il tradurre da lingue affini e prossime (è il caso dall’italiano in portoghese e viceversa o dall’italiano in spagnolo e viceversa) e il tradurre da lingue diverse e lontane (ad esempio, dall’inglese, dal russo o dal giapponese – le ho posizionate, come si può notare, in ordine di “lontananza” – in una qualunque delle lingue romanze). Non si vuole certo con questo – come rileva giustamente Umberto Piersanti, poeta e sociologo urbinate – «sottovalutare le differenze, anche sostanziali, che intercorrono pure fra lingue che si sono sviluppate da un comune ceppo» [PIERSANTI, 1989: 138]. Ad esempio: “fiore” e “albero”, che in italiano sono maschili, in portoghese sono femminili – “a flor” e “a árvore” – con tutte le differenze di percezione e tradizione culturale che ciò comporta. Come anche non è da sottovalutare una difficoltà che la traduzione da una lingua diversa e lontana dalla nostra non presenta, ossia, quella delle facili somiglianze, dei cosiddetti “falsi amici”. Ciononostante, è indubbio che, «nel caso di lingue vicine, l’aura poetica risulti talora quasi intatta nella stessa trascrizione letterale» [IDEM].

Ritornando alla “coperta corta”, qui forse non è già (o soltanto) una questione di “compromesso” ma di “scelte”. Personalmente, non opto mai per una traduzione metrica che possa pregiudicare la melodia ritmica o – questa volta sì! – la fedeltà al testo di partenza.

Riassumendo, in una scala di “preferenze”, personalmente metto: al primo posto, il ritmo e la musicalità dell’intero corpus poetico tradotto; al secondo, la fedeltà lessicale (che, una volta effettuata la scelta ritmica, può essere più facilmente rispettata); e solo alla fine il puro “conteggio sillabico”. Una considerazione a tale riguardo: è errato credere che la traduzione libera sia meno impegnativa di quella metrica, non foss’altro perché il verso libero (sia quando si crea poesia sia quando la si traduce) è – come fa notare la compianta Maria Luisa Spaziani, oltre che insigne poetessa anche traduttrice dal francese (Gide, Cocteau, Audibert, ecc.) – «più difficile di quello tradizionale perché si tratta di inventare ogni volta una misura» [SPAZIANI, 1989: 157].

Una scala di preferenze, tuttavia, posizionata all’interno di una moderata e discreta, oserei dire, libertà in relazione al testo di partenza, senza la quale ben difficilmente il traduttore conseguirebbe l’autenticità del “proprio” movimento melodico [cfr. SANSONE, 2005: 497].

Fra le varie classificazioni, quanto alla traduzione poetica, che nelle ultime decadi sono state teorizzate, figura quella del russo Efim Etkind, famoso studioso di storia e teoria della traduzione, scomparso nel 1999 in Francia, dove si era stabilito a partire dal 1974, professore all’Università di Paris-Nanterre e autore di un’interessantissima opera, Un art en crise. Essai de poétique de la traduction poétique (1982). Etkind, dopo aver letto «attentamente le edizioni recenti che i traduttori corredano solitamente di prefazioni dedicate all’illustrazione dei principi cui si ispira il loro lavoro», distingue «sei tipi» di traduzione poetica [cfr. ETKIND, 2005: 584-596]. Mettendo da parte, e volutamente, la «Traduzione-Informazione», la «Traduzione-Allusione» e la «Traduzione-Approssimazione» (poiché, secondo il mio parere, che è poi, in fondo, quello dello stesso teorico russo, hanno poco o nulla a che vedere “artisticamente” con la vera traduzione poetica), vediamo brevemente quel che riferisce Etkind sulle tre restanti:

– La «Traduzione-Interpretazione»: «Fonde la traduzione con la parafrasi e l’analisi. Essa è utile quale supporto agli studi storici ed estetici» [IDEM: 584].

– La «Traduzione-Ricreazione»: «Essa ricrea l’insieme, pur mantenendo la struttura originale. La T-R non è possibile se non al prezzo di sacrifici, trasformazioni e aggiunte; ma l’arte intera del traduttore sta proprio nel limitare i sacrifici al necessario, nel tollerare solo le trasformazioni che restano nell’ambito specifico e ristretto del sistema artistico in questione, nel fare unicamente le aggiunte che non travalichino i confini dell’universo estetico del poeta» [IDEM: 590].

– La «Traduzione-Imitazione»: produce lo «staccarsi dall’originale» e «immette una nuova opera in un insieme appartenente più al traduttore-poeta che all’autore dell’originale» [IDEM: 595].

Quest’ultimo tipo di traduzione, dicono gli esperti (e probabilmente hanno ragione!), è quasi sempre un’opzione (forse “genetica”!) dei poeti traduttori, molti dei quali (chissà! forse per una solidarietà di “categoria”!) affermano che solo i poeti possono tradurre i poeti. Ora, confutare un tale preconcetto non è difficile.

Lo scomparso Karl Dedecius, famoso traduttore tedesco dalle lingue slave, nella sua opera Vom Übersetzen Theorie und Praxis [Teoria e prassi della traduzione] (1986), afferma che «il talento poetico non esclude né include il talento traduttivo», e questo perché vi sono poeti che, non riuscendo a scrollarsi di dosso il proprio stile, sono «incapaci di tradurre». Difatti, «chi scrive poesie non sempre è un poeta, chi non scrive poesie può esserlo potenzialmente.» [cit. in MATTIOLI, 2005b: 209].

A tale proposito, mi sovviene un’affermazione di Antero de Quental, il poeta-filosofo per eccellenza della letteratura portoghese ottocentesca, il quale, esprimendo in una lettera del 1888 al suo amico Joaquim de Araújo, console portoghese a Genova, una personale opinione su Tommaso Cannizzaro (poeta siciliano che nel 1898, dopo la morte di Antero, tradurrà in italiano i suoi Sonetos Completos , alcuni già anteriormente mostrati allo stesso Antero e pubblicati in riviste e giornali), scrive: «molto libero e più imitatore che propriamente traduttore» [cit. in DE CUSATIS, 1998. 32]. E Antero aveva ragione! D’altronde, ancora nell’Ottocento e nel corso di gran parte della prima metà del Novecento, le traduzioni italiane in versi, e nel caso specifico quelle dal portoghese, erano eseguite non di rado da poeti che, oltre ad avere spesso poca padronanza della lingua straniera, anteponevano al rigore filologico dell’interpretazione testuale la resa metrica e ritmica del verso.

Ciò detto, a mio avviso, la libertà eccessiva non paga. Il traduttore deve sì muoversi in libertà, ma con moderazione. È assolutamente vero, come ebbe modo di affermare Novalis, che la traduzione poetica è poesia; tuttavia, una poesia non intesa come “imitazione”, neppure come sola “interpretazione”, ma soprattutto – quantomeno è questa la mia convinzione – come “ricreazione”: “poesia della poesia”. Fermo restando, come afferma Peter Newmark, che «probabilmente una traduzione brillante dipende più dall’empatia del traduttore col pensiero dell’autore che non dall’affinità linguistica e culturale» [NEWMARK, 1988: 105].

Concludendo, sono dell’opinione che la traduzione poetica è un’opera d’arte. Questa sua natura fa sì che non si possa stabilire a priori come debba essere fatta. È un errore teorizzare un criterio che è, quantomeno, e assolutamente, empirico (ad esempio, stabilire, sempre a priori, quale forma metrica usare o se usare una qualche forma metrica): l’opzione della traduzione appartiene, caso per caso, al traduttore.

 

(Fine)

Leggi la prima parte

Bibliografia di riferimento

– BONA, G. P., 1989. Interpretes et amants (o la condizione del tradurre), in: BUFFONI, F., 1989, cit.: 139-143.

– BUFFONI, F. (a cura di), 1989. La traduzione del testo poetico. Guerini e Associati, Milano.

– BUFFONI, F. (a cura di), 2005a. Traduttologia. La teoria della traduzione letteraria, in «Quaderni di libri e riviste d’Italia» (Roma), 57: Parte I e Parte II.

– BUFFONI, F., 2005b. Traduttologia, in: BUFFONI, F., 2005a, cit., Parte I: 5-19.

– COCO, E., 1989. Perché ho tradotto i giovani poeti spagnoli, in: BUFFONI, F., 1989, cit.: 271-275.

– DE CUSATIS, B., 1998. A Itália em Antero. Antero em Itália, in «Estudos Anterianos» (Vila do Conde), 2, Outubro de 1998: 23-33.

– ECO, U., 2004 (9a edizione). Lector in fabula. La cooperazione interpretativa nei testi narrativi. Bompiani, Milano.

– ECO, U., 2006 (7a edizione). Opera aperta. Forma e indeterminazione nelle poetiche contemporanee. Bompiani, Milano.

– ETKIND, E., 2005. Un’arte in crisi. Saggio di poetica della traduzione (Qual è lo scopo della traduzione poetica?), in: Buffoni F., 2005a, cit., Parte II: 561-599.

– ISER, W., 2005. Il concetto di traducibilità: le variabili dell’interpretazione, in: BUFFONI, F., 2005a, cit., Parte II: 505-519.

– LOTMAN, J. M., 1990. La struttura del testo poetico, a cura di Eridano Bazzarelli. Mursia, Milano.

– LUZI, M., 1989. Riflessioni sulla traduzione, in: BUFFONI, F., 1989, cit.: 145-149.

– MATTIOLI, E., 2005a. La traduzione letteraria, in: BUFFONI F., 2005a, cit., Parte I: 187-198.

– MATTIOLI, E., 2005b. La traduzione di poesia come problema teorico, in: BUFFONI, F., 2005a, cit., Parte I: 205-215.

– NEWMARK, P., 1988. La traduzione: problemi e metodi, traduzione dall’inglese di Flavia Frangini. Garzanti, Milano.

– OSIMO, B., 1998. Manuale del traduttore. Guida pratica con glossario. Editore Ulrico Hoepli, Milano.

– PIERSANTI, U., 1989. Il testo non è pretesto, in: BUFFONI, F., 1989, cit.: 135-138.

– SANSONE, G. E., 2005. Traduzione ritmica e traduzione metrica, in: BUFFONI, F., 2005a, cit., Parte II: 487-503.

– SPAZIANI, M. L., 1989. La traduzione di poesia come osmosi, in: BUFFONI, F., 1989, cit.: 151-157.

– STEINER, G., 2004. Dopo Babele. Aspetti del linguaggio e della traduzione, traduzione italiana di Ruggiero Bianchi e di Claude Béguin. Garzanti, Milano.

– WOLFENSTEIN, A., 2005. L’arte della traduzione, in: BUFFONI, F., 2005a, cit., Parte II: 465-470.

 

[Una prima versione di questo articolo – qui abbreviato, rivisto e suddiviso in due parti – è stata pubblicata in portoghese, con il titolo A tradução literária: uma arte conflitual, nella rivista cartacea brasiliana (edita dall’Universidade Federal de Santa Catarina) «Cadernos de Tradução» (Florianópolis), Vol. 2, n. 22 (2008): 9-34)].

 

 

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