Sappiamo come nel mondo occidentale sarebbe stato più che altro a partire dalla prima metà del XIX secolo che vari artisti e intellettuali, e non solo filosofi, volsero il proprio interesse al Buddismo e, in genere, a tutte le dottrine e filosofie orientali, venendone alcuni, peraltro, fortemente influenzati.
Il Portogallo non avrebbe fatto eccezione. In tal senso, spettò alla cosiddetta “generazione del ’70”, e già nella sua fase embrionaria – ossia, grosso modo, tra il 1858 e il 1865, durante gli anni che i vari Antero de Quental (1842-1891), Eça de Queirós (1845-1900), Teófilo Braga (1843-1924), Alberto Sampaio (1841-1908), Manuel Arriaga (1840-1908) e tanti altri frequentarono l’Università a Coimbra – l’arduo compito di scuotere il Portogallo da un lungo e deleterio letargo culturale. In modo che il Paese si confrontasse, nelle parole di Antero, con le «tre grandi nazioni pensanti», Francia, Inghilterra e Germania [QUENTAL, 1973 (Bom senso e bom gosto): 281-295 (290)]QUENTAL, 1973, dove, tra l’altro – per il tramite, soprattutto, di orientalisti come l’inglese Henry Thomas Colebrooke (1765-1837), a lungo vissuto in India nonché uno dei direttori della Royal Asiatic Society, e di filosofi come Arthur Schopenhauer (1788-1860) – erano in parte già state recepite e studiate le filosofie orientali, quella buddista in particolare, spesso riadattate, per così dire, ai fabbisogni etici e speculativi occidentali.
Tra tutti gli esponenti della “generazione del ’70” di certo fu Antero de Quental, il poeta-filosofo per antonomasia, colui che maggiormente si sentì attratto, e per ragioni – direi – non solo speculative ma anche e soprattutto esistenziali, dalla filosofia buddista.
È risaputo come la vita di Antero sia stata quella di un uomo che si sforzava continuamente di “pensare”, rimanendo, tuttavia, al tempo stesso, tragicamente prigioniero del proprio “sentire”. Una verità che possiamo cogliere non solo nella sua poesia, ma anche in tutta una serie di missive indirizzate agli amici più cari. In queste lettere, Antero mise a nudo tutti i suoi dubbi, le sue incertezze e paure, le sue sofferenze e torture psicologiche che gli derivavano, oltre che dalla sua indole e da un fisico debilitato, dalla consapevolezza di essere stato immesso in una realtà a lui estranea, in una società che aveva tentato, con il suo rigore morale, inutilmente di “combattere”.
Fu un’esistenza, la sua, completamente votata alla ricerca di risposte, quelle stesse risposte di cui da sempre ogni uomo ha bisogno per comprendere il mondo circostante, le sue leggi morali e naturali, per afferrare il fine supremo della creazione, per dare, in ultima analisi, un senso alla propria vita.
Antero, senza mai desistere del tutto, cosciente o meno, da certe innate inclinazioni caratteriali e concettuali, che però da sole non gli davano né la forza né il conforto sufficienti per poter superare e, quindi, accettare le incertezze, le angosce, quel «disprezzo dell’uomo per se stesso», s’immerse, con estremo e bisognevole interesse, nella lettura e nello studio approfondito di tutta una serie di testi e saggi, dottrinari e filosofici, che avrebbero potuto – era per lo meno questo che lui s’augurava – aprirgli porte nuove, offrirgli prospettive, aspirazioni nuove o, quando tutto ciò fosse venuto ancora a mancare, rafforzare in lui la tragica e desolante convinzione dell’inutilità della vita.
È proprio in ragione di tutto questo che si spiega il suo profondo interesse per l’etica e la filosofia buddista, in stretto rapporto, peraltro – e non poteva essere diversamente – con il versante contemplativo e mistico della sua indole.
Era Antero un giovane poco più che ventenne quando per la prima volta, in occasione di una lettera indirizzata ad António de Azevedo Castelo Branco (1842-1916), si soffermò a riflettere sulla necessità da parte dell’uomo di ricorrere alla contemplazione, al misticismo, a una sorta di «cenobitismo», per potersi opporre «alla brutalità invaditrice delle condizioni fatali del mondo»:
Scrive Antero in questa missiva del 1865 :
«Tutte le volte che l’anima umana, soffocata dall’abbraccio bestiale della natura, si è trovata di fronte al pericolo di morire, non le sono state d’aiuto né la passione né la lotta tumultuosa e drammatica, ma solo il distacco, l’astinenza, la contemplazione. È proprio questa la base tanto delle religioni quanto delle filosofie; e Cristo e Buddha, in questo (che è l’essenziale), vanno d’accordo con Socrate ed Epitteto» [QUENTAL, 19891: 51-52 (51)] (1).
Quest’ultima affermazione di Antero è molto significativa nella misura in cui anticipa quello che sarà, negli anni a venire, un suo tentativo costante, al limite – direi – dell’ossessione, di conciliare sincreticamente Ellenismo, Cristianesimo e Buddismo. Ciò sempre in virtù di quel travaglio sofferto nel corso di un’intera esistenza, in cui si alternavano momenti di profondo pessimismo e spiragli di ottimismo – ottimismo dettatogli, più che altro, dal versante filosofico – eppure non sufficienti, tali spiragli, ad allontanare da lui il baratro del suicidio.
Data dal 1872 l’inizio della sua grande crisi depressiva e pessimistica – poi acutizzatasi a partire dal 1874, a causa di una malattia sulla cui vera natura ancora oggi non si è fatta piena luce. Ne sono testimonianza due lettere scritte l’una a gennaio e l’altra ad aprile.
Nella prima, indirizzata al suo grande amico e confidente Oliveira Martins (1845-1894), fa espressamente riferimento a uno stato di profondo malessere, sia fisico (con i suoi – scrive – «disturbi nervosi, insonnie, ecc.»), sia d’animo («affetto da uno di quei periodi di abbattimento e indifferenza di buddista che sono propri del mio temperamento»). Continua dicendo:
«Sento il desiderio del Nirvana, se non come un grande contemplativo, quantomeno come un malato. La malattia, in un modo o nell’altro, è il mio stato normale […] Ho un orrore istintivo, come se fosse innato, per tutte quelle idee che rappresentano l’attività della vita, quali plenitudine, felicità, speranza e altre dello stesso genere. Vado solo a intermittenza e a forzature. In una parola, sono nato monaco […] Comunque, quel che è certo è che in questo momento sono affetto dalla nausea della realtà. Non so quanto tempo durerà tale attacco. Non è il primo: è una delle mie alternative, dipendente dal predominio dell’uno o dell’altro dei due fattori della mia vita morale» [IBIDEM: 159-160].
Nell’altra lettera, indirizzata a João Lobo de Moura (1840-1903), Antero riporta due sonetti, entrambi privi di titolo. Le due ultime strofe del secondo sonetto – cui, più tardi, darà il titolo Nirvana (2) – così recitano nella mia traduzione:
«Che mistici desideri pazzo mi rendono? / Gli abissi del Nirvana appaiono / Ai miei occhi, nella muta immensità! // In questo viaggio per l’ermo spazio, / Solo vado in cerca di te e del tuo abbraccio, / Morte! sorella dell’Amore e della Verità» [IDEM, 1991: 180-191 (183)].
Il sonetto è preceduto, sempre nella lettera di Antero, da questa chiosa:
«[…] potrebbe semplicemente avere come autore qualche solitario, discepolo di Buddha, che 2500 anni fa si sia seduto all’ombra del Baobab e, immobilizzando lo spirito su un punto unico (secondo il precetto del Maestro), abbia tentato di sottrarsi al tormento supremo della considerazione della contingenza e fragilità delle cose. È, però, più credibile che il suo vero autore sia qualche filosofo tedesco contemporaneo, che, disperando di trovare la ragione ultima dell’Essere nell’insufficiente naturalismo della filosofia moderna, si sia abbandonato ai sogni insondabili del sentimento religioso primitivo. Quel che ci porta a optare per questa seconda supposizione è il fatto che nel Sonetto menzionato si rintracciano certe allusioni e approssimazioni, nonché una lucidità razionale, che discordano con la semplicità profonda del concretismo dei veggenti antichi, e solo s’accordano con la sottigliezza saggia dei neobuddisti» [IDEM, 19891: 161-163 (162)].
Certamente, tale chiosa fa sì che si possa parlare in questo caso – d’accordo con quanto afferma Joaquim de Carvalho (uno dei maggiori anterianisti, insieme ad António Sérgio e a Leonardo Coimbra, della vecchia generazione) – di un’«autocritica, evidentemente sincera» da parte di Antero, la quale
«rivela che il sonetto esprime l’attitudine di chi evoca e descrive stati psicologici altrui. Sotto una forma letteraria personale, trova riparo una concezione impersonale e, pertanto, una concezione più o meno libresca» [CARVALHO, 1983: 203].
Il nodo della questione, nella fattispecie, si riporta a quella conflittualità o contrapposizione, di cui all’inizio dicevo, tra l’”Antero poeta che pensa” e l’”Antero poeta che sente”. Tant’è che proprio alla luce di questa verità irrefutabile si spiegano (solo in una prospettiva filosofica, ben inteso, e non in una prospettiva poetica) i palesi anacronismi presenti in alcune composizioni del suo “libro” immortale, ossia, i Sonetos Completos – libro per il quale Antero de Quental avrebbe coniato varie espressioni (quali: «memorie di una coscienza», «autobiografia psicologica», «diario intimo») e al cui taglio cronologico, da lui stesso datogli, sono state mosse, anni addietro e da più parti, forti riserve (3).
Ritorniamo, tuttavia, ai versi del sonetto Nirvana – in particolare, quelli della seconda terzina
«In questo viaggio per l’ermo spazio, / Solo vado in cerca di te e del tuo abbraccio, / Morte! sorella dell’Amore e della Verità».
Ebbene, se rapportiamo tali versi tanto all’intera serie dei sei sonetti, della quale appunto Nirvana fa parte e il cui titolo, Elogio da Morte, è già di per sé molto significativo, quanto al concetto di “Non-Essere” – la cui apparizione nel poeta-filosofo portoghese risale per lo meno al 1878 (4), per poi essere approfondito e sviluppato, nel 1890, nel saggio Tendências gerais da filosofia na segunda metade do século XIX, universalmente considerato il suo testamento filosofico e in cui giungerà alla conclusione che la
«transizione dell’essere al non-essere […] equivale […] alla plenitudine e perfezione dell’essere» [QUENTAL, 19892: 115-172 (165)] – ne viene fuori che la riflessione sulla morte sarà, a partire grosso modo dal 1874, uno dei punti fermi, una delle coordinate fondamentali della problematica sia speculativa che esistenziale di Antero de Quental, riflessione che lui stesso avrà modo di definire, in occasione di una della tante lettere indirizzate ad António de Azevedo Castelo Branco, «una specie di Filosofia idealista della Morte» [IDEM, 19891: 277].
In sostanza, sarà questo un tentativo – una sorta di esorcizzazione, potremmo definirla – di giustificare filosoficamente, non la Morte in sé (5), ma il sentimento pessimista che il pensare in essa, da parte di un grande infermo (quale Antero effettivamente era), sempre sottende.
In tal senso, possiamo dire che il pensiero anteriano oscilli tra la filosofia buddista e la filosofia tedesca – nella fattispecie, quanto al pessimismo sistematico, non solo la filosofia di Schopenhauer ma anche quella di Eduard von Hartmann (1842-1906), in particolare con riferimento alla sua opera prima, Filosofia dell’inconscio (1869) (6): la chiosa sopraccitata, fatta da Antero al sonetto Nirvana, ne è una conferma.
D’altronde, la filosofia del XIX secolo, e non solo quella tedesca, aveva ampiamente dimostrato come il Buddismo non rappresentasse una dottrina, una filosofia a se stante, isolata nel tempo e nello spazio, ma s’innestasse perfettamente, con il suo dharma (la «Legge»), in quelle che erano le esigenze, a livello tanto speculativo quanto religioso, del mondo occidentale, non solo epocale ma anche dei secoli passati e, in prospettiva, di quelli futuri. Di questo Antero de Quental – che pur avendo perso la fede continuava a essere religioso – ne era ampiamente consapevole.
Nel giugno del 1876, in una lettera spedita da Ponta Delgada a Oliveira Martins, annotava:
«Il grande filosofo è l’Umanità e di questo grande filosofo il migliore e maggiore sistema (per ora) è il Cristianesimo cattolico. […] Questa mia ammirazione non impedisce […] il riconoscere il lato debole del Cristianesimo, la lacuna che, nello stabilire una contraddizione fondamentale, dovrebbe generare, con il trascorrere del tempo, la sua perversione e dissoluzione finale. Questa lacuna è l’ignoranza della Natura. Incomparabile come religione metafisica e morale, è inferiore, in termini di comprensione delle condizioni positive della realtà, allo stesso Politeismo. […] Credo che l’opera dei secoli più prossimi sarà, non quella di distruggere il Cristianesimo (voglio dire, lo spirito cristiano, il punto di vista di trascendenza metafisica e morale), ma completarlo con la scienza della realtà. La religione del futuro, di cui ci parla Hartmann, non può essere che questa, e non reputo necessario ricorrere al Buddismo, quando quel che in esso v’è di meglio lo si ritrova nel Cristianesimo, e con una forma sentimentale più pura, più umana» [IBIDEM: 347-349 (348-349)].
Credo che occorra prestare molta attenzione a questa ultima affermazione. Nel senso che non la si deve interpretare come un ripensamento del Poeta quanto all’efficacia, alla positività del Buddismo, in termini anche ascetici o contemplativi.
Dalla corrispondenza intercorsa tra Antero de Quental e Oliveira Martins, sappiamo che i due amici ebbero modo di discutere spesso sulla dottrina buddista e sul perché il primo le desse tanta importanza e ne fosse attratto. Oliveira Martins era molto scettico e critico (non «calunni il Buddismo» – lo avrebbe ammonito Antero in una lettera del maggio 1887 – poiché esso «si porta dietro tutta la soddisfazione, tutta la consolazione e tutta l’allegria» [IBIDEM: 841-842 (841)]), tanto da definire “chimerica”, nella sua Prefazione ai Sonetos Completos, la «formula» con cui Antero era solito riassumergli il suo pensiero, quella di: «un ellenismo coronato da un buddismo» [MARTINS, 1983: 32].
Nel 1889, tre anni dopo l’uscita della prima edizione dei Sonetos Completos, in una lettera a Jaime de Magalhães Lima (1859-1936), Antero avrebbe meglio spiegato questa sua formula:
«La vita naturale, con le sue passioni, le sue illusioni, il suo tumultuare di speranze e delusioni, attrarrà sempre la maggioranza degli uomini, e solo da questa maggioranza verrà fuori, per il tramite di una vera e propria selezione, l’esiguo numero di coloro che vi rinunciano per piacere e desiderio, poiché convinti che il vero essere, quello spirituale, consiste giustamente in un non-essere naturale, e che l’uomo vive la vera vita quanto più disprezza la vita dei sensi, degli istinti e dell’immaginazione. Intanto, credo che non esista tra questi due punti estremi un’opposizione assoluta, bensì una scala, una gradazione e una transizione; sono due poli della natura umana; ed è stato questo che io ho voluto dire con la mia formula dell’”Ellenismo coronato da un Buddismo”: l’Ellenismo è la vita naturale, nei suoi diversissimi tipi, nella ricchezza della sua evoluzione, nell’approssimarsi o nell’allontanarsi, quanto più, quanto meno, dalla comprensione trascendente, la cui espressione è il Buddismo, che propriamente non gli si oppone, ma lo completa superiormente. Il Buddismo è uno stato psicologico puro, il quale, proprio perché presuppone quelli anteriori meno puri, non li può negare assolutamente. […] Il distacco, quindi, del Buddista sarà solo interiore, ma la sua vita sarà attiva; soltanto la molla di questa attività è che sarà mutata, da personale a impersonale, da egoista a disinteressata» [QUENTAL, 19891: 925-926].
Note
(1) Tanto questa quanto le altre successive traduzioni dal portoghese all’italiano sono a mia cura.
(2) Con questo titolo sarà pubblicato, nel febbraio 1975, sulla «Revista Ocidental» e incluso in una serie di sei sonetti, successivamente apparsa, nel 1886, con il solo titolo Elogio da Morte (il sonetto in questione è il «II»), nei Sonetos Completos [QUENTAL,1983: 167-172 (168)].
(3) È il caso di António Sérgio, che nell’organizzare, nel 1943, una nuova edizione dei Sonetos [QUENTAL,19847], si arrogò, per così dire, il diritto, dall’alto della sua indubbia levatura di critico e pensatore, di raggruppare le composizioni secondo un ordine puramente tematico [DE CUSATIS, 1991: 36-44 e note corrispondenti].
(4) Sarà, difatti, in una sua lettera di marzo di quell’anno, indirizzata a Jaime Batalha Reis (1847-1935), che scriverà: «Sul Nirvana c’è così tanto da dire, che non lo si può dire tramite lettera […] Per quanto mi riguarda, l’idea di “non essere”, l’antitesi della “realtà”, è il passe-partout della metafisica e, di conseguenza, di tutta la filosofia, e di tutto il filosofare e, perfino, di tutta la vita» [QUENTAL, 19891: 414].
(5) Scrive Schopenhauer in Del bisogno metafisico dell’uomo: «è […] la cognizione della morte, insieme con la vista del dolore e della miseria della vita, che ha senza dubbio dato l’impulso più forte alla riflessione filosofica e alle spiegazioni metafisiche del mondo. Se la nostra vita fosse senza fine e senza dolore, a nessuno forse verrebbe in mente di domandarsi perché il mondo esista e perché sia fatto proprio così, ma tutto ciò sarebbe ovvio» [SCHOPENHAUER, 1989: 938-976 (939)].
(6) Del filosofo berlinese Antero possedeva altre due opere fondamentali: Fenomenologia della coscienza morale (1879) e Filosofia della religione (1882) [CARREIRO, 1981: II, 357].
Bibliografia di riferimento
– CARREIRO, José Bruno, 1981. Antero de Quental. Subsídios para a sua biografia. Instituto Cultural / Livraria Editora Pax, Ponta Delgada / Braga: 2 voll.
– CARVALHO, Joaquim de, 1983. Antero de Quental e a filosofia de Eduardo de Hartmann. In Idem. Evolução espiritual de Antero e outros escritos. Antília / Secretaria Regional da Educação e Cultura – Angra do Heroísmo, Vila da Maia: 197-222.
– DE CUSATIS, Brunello, 1991. Introduzione. In QUENTAL, Antero de. Sonetti, cit.: 9-51.
– MARTINS, J. P. de Oliveira, 1983. Prefácio. In QUENTAL, Antero de. Sonetos Completos, ed. cit.: 5-63.
– QUENTAL, Antero de, 1973. Obra Completa. Prosas da Época de Coimbra. Livraria Sá da Costa Editora, Lisboa.
– QUENTAL, Antero de, 1983 [nuova edizione]. Sonetos Completos. Prefaciados por J. P. de Oliveira Martins. Lello & Irmão – Editores, Porto.
– QUENTAL, Antero de, 19847. Sonetos. Edição organizada, prefaciada e anotada por António Sérgio. Livraria Sá da Costa, Lisboa.
– QUENTAL, Antero de, 19891. Cartas I. [1852] – 1881 [e] Cartas II. 1881 – 1891. Organização, introdução e notas de Ana Maria Almeida Martins. Universidade dos Açores / Editorial Comunicação, Lisboa.
– QUENTAL, Antero de, 19892. Filosofia. Organização, introdução e notas de Joel Serrão. Universidade dos Açores / Editorial Comunicação, Lisboa.
– QUENTAL, Antero de, 1991. Sonetti. Introduzione, traduzione e note di Brunello De Cusatis. Novecento, Palermo.
– SCHOPENHAUER, Arthur, 1989. Il mondo come volontà e rappresentazione. A cura di Ada Vigliani. Introduzione di Gianni Vattimo. Arnoldo Mondadori Editore, Milano.