In-attuali. Sette ragioni per rileggere Edward Gibbon

Contro il pensiero apocalittico dominante e non solo: poco meno di 3mila pagine per l'esorcismo di (tutte) le ideologie

Stufi di libretti auto-consolatori, di romanzetti che descrivono amplessi castigati sperando di risultare scandalosi? Stanchi di saggi specchi riflessi ego-riferiti? Ecco sette buone ragioni per rileggere un mattone impossibile, un libro relegato all’oblio da tutte le ideologie e le pigrizie,  Declino e Caduta dell’Impero Romano di Edward Gibbon.

 

 

 

Questa è la prima. Senza Roma non si capirebbe la storia del mondo. E senza studiare il mondo che le ruotò attorno, non si capirebbe la storia di Roma. L’Urbe è stata al centro della vicenda umana su questo sciagurato pianeta. Ma per tentare di comprenderci qualcosa non si può prescindere dal prendere in considerazione un tempo e uno spazio sterminati, almeno quanto la gloria che ebbe. Da Antonino Pio e fino a Costantino Paleologo, dunque. E dai deserti dell’Arabia alle steppe circasse, dall’Armenia all’Inghilterra. La storia non comincia con lo sbarco della Mayflower né termina con la caduta del Muro a Berlino. Mettiamocelo in testa.

Ecco la seconda ragione. Aureliano avrebbe potuto essere il restauratore dell’Impero. Così come Giuliano l’Apostata. È stato il Cristianesimo a portare alla caduta di Roma o è stata la decadenza ormai inarrestabile dell’impero a nutrirsi delle divisioni dottrinarie, ideologiche e politiche che si contesero i primi secoli della cristianità? Di sicuro quando si sgretola l’unione, la concordia hominum ecco che i il punto centrale che testimonia l’inizio della fine di una civiltà. Anatole France ne “la leggenda di San Nicola” descrive cosa sia e soprattutto da dove nasce e come funziona la distruzione di una civiltà.

Segue la terza. La guerra ha fatto sempre schifo, fin da quando Roma  non era ancora Roma. Fin dai tempi di Aristofane. L’orrore nella guerra è una costante. Le sue forme mutano a seconda delle tecnologie e della “fantasia” dei mostri che le praticano. Nell’alto Medioevo andavano di moda le bande di prigioneri con gli occhi strappati mentre un unico compagno, reso orbo, era a guidarle per rendere tributo al sovrano vittorioso. Oggi basta un video pubblicato sul web, Ma forse la cosa più tremenda della guerra è l’unica sua assoluta verità, sempre negletta: gli eroi la combattono ma la vincono i ragionieri.

Eppure qualche immagine nobile c’è. Come quella di uno scambio di prigionieri, tra Bisanzio e le armate arabe che si svolge su un ponte. I musulmani, liberati, urlano ai loro “Allah Akbar”. I Greci, di ritorno in seno all’Impero, gli replicano “Kyrie Eleision”. Non è solo la storia di uno scontro: del resto il Digenes Akritas, l’eroe epico delle frontiere, antesignano medievale di Clint Eastwood, è mezzo arabo e mezzo bizantino.

 

 

La quarta ragione. Enea non fu turco. Le gloriose genti che daranno vita agli imperi selgiudico e ottomano venivano dalle più remote regioni dell’Asia e ci impiegarono secoli prima di stabilirsi definitivamente dove sono oggi. Dare del turco a Enea sarebbe, contemporaneamente, negare millenni di storia anatolica e cancellare, contemporaneamente, un’epopea gigantesca. Che dall’Estremo Oriente s’è distesa fino alle porte di Vienna. La storia è più “no borders” di quanto possano nemmeno immaginare i nostri simpatici amici sbrilluccicosi del politicamente corretto.

A proposito di decadenza. ecco la quinta ragione. Edward Gibbon fu politico di punta nell’Inghilterra del ‘700. Nei suoi momenti di ozio scrisse un’opera dalle dimensioni e dalla profondità mostruosa a cui attese, praticamente, per tutta la vita. Oggi i politici si fanno scrivere i twit e, nella migliore delle ipotesi, si fanno compilare libercoli che poi, come quello (troppo frettoloso) del ministro Speranza, spariscono dagli scaffali.

La sesta ragione. L’edizione Einaudi racchiude i sei libri in tre volumi, 2.868 pagine nette e fitte di note, citazioni e riferimenti ai più oscuri cronisti di ciascuna delle epoche affrontante dall’autore. Ma Jean Cau ha ragione: al tempo della leggerezza obbligatoria, ogni tanto viene la voglia di buttare via la lametta usa e getta e radersi con un bel coltellaccio di una volta. Figurarsi oggi dove tutto da leggero s’è fatto digitalmente impalpabile.

Max von Sydow ne Il Settimo Sigillo

Infine l’ultima ragione, non necessariamente la più importante. Per aspera ad astra, dice il saggio. Forse la ragione più importante per sobbarcarsi una lettura tanto impegnativa sta in un semplicissimo atto di ribellione contro il pensiero apocalittico che domina quest’era di pandemie e guerre. Temiamo che si possa sgretolare il mondo mentre il l’Ur-quacchero universale, il penitente eterno oggi in salsa eco-nazi (leggete pure, per favore, la satira distopica Rock ‘n’ Roll, nazisti e Monty Python di Pierluca Pucci Poppi e Federico Bonadonna) ci impone, al solito, autofustigazione e pentimento. La vita è una partita a scacchi con la morte, tanto quella degli uomini, quanto quella delle civiltà.  Le ideologie non sono né eterne né utili, specialmente quando, per darsi un tono d’eternità, negano la natura, caduca, dell’uomo di cui sono sempre e comunque figlie. E’ caduta Roma, è crollata Bisanzio, il mondo non si fermerà se precipiteremo anche noi. L’importante sarà stato aver attraversato la vita con stile.

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Giovanni Vasso

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