Roma – Un fattore che spesso si ignora in una purtroppo consolidatasi interpretazione erronea della Museologia è quello di non giudicare il Museo come una «Istituzione Identitaria»; in altre parole, nel suo contribuire in modo effettivo a connotare un luogo. Sciaguratamente, da quando si è insediato il Ministro Dario Franceschini, si è arrogantemente e pervicacemente proceduto ad alterare e, talvolta, persino a smantellare intere collezioni, nel segno di un mendace e ideologico culto del cambiamento: è il caso della da noi più e più volte stigmatizzata soppressione del Museo Nazionale d’Arte Orientale «Giuseppe Tucci» di Roma. Per accorgersi di quanto sia scellerata tale gestione del Patrimonio, è sufficiente la riscoperta anche di un singolo scrigno di Bellezza; la cui rinascita può infondere linfa al Genius Loci di una comunità. Così è avvenuto con l’apertura, dopo quasi trenta anni di chiusura, di quella che fu l’abitazione del grande artista Giacomo Balla (1871 – 1958).
Nel silente e armonioso Quartiere Della Vittoria nella Capitale, al civico 39 di via Oslavia, si incontra un palazzo che da fuori si mostra sobriamente borghese. Eppure, al quarto piano dell’edificio, dietro una porta simile a tante altre, si schiude un mondo fatto di estro e fantasia. Per celebrare i 150 anni dalla nascita di Balla, grazie all’impegno del MAXXI di Roma, dallo scorso 17 giugno è stata finalmente offerta alla pubblica fruizione la sua abitazione, ove egli si trasferì nel 1929 con la moglie e le amate figlie (Luce ed Elica, anche loro pittrici).
Varcata la soglia dell’appartamento, non ci si aspetterebbe certo di incontrare una epitome di «arte totale». Magari la dimora di un artista, con quadri e ricordi sparsi un po’ ovunque, questo sì. Per converso, qui Balla creò forse il maggiore tra i suoi capolavori, esprimendo in ogni angolo dei circa 150 mq della sua casa la propria personalità. Troppo limitativo sarebbe l’utilizzo della definizione di «museo domestico», considerato che durante tutto il periodo della sua permanenza, colui che è stato uno dei massimi esponenti del Futurismo ha trasformato il luogo nel quale risiedeva in un fertile laboratorio di sperimentazione fatto di pareti e porte dipinte, arredi decorati, utensili autocostruiti, abiti disegnati e cuciti (bellissimi quanto famosi sono i suoi gilet), proponendo una visione dell’arte onnicomprensiva e, segnatamente, caleidoscopica. Infatti, una particolarità che contraddistingue i diversi ambienti è la abbondanza della luce, essenziale per valorizzare appieno la potenza dei colori nelle varie stanze, tra cui spicca il cosiddetto «Studiolo Rosso», un piccolo vano, il cui fine è prettamente ornamentale, con chiari rimandi al gusto naïf del suo amico e allievo Fortunato Depero (1892 – 1960), che scelse parimenti di dotarsi di una residenza, per la precisione a Rovereto, che fosse la incarnazione della sua personalissima produzione creativa.
Non stupisce, quindi, che Balla firmò per l’appunto con Depero nel 1915 il manifesto sulla Ricostruzione Futurista dell’Universo, col quale si auspicava una completa fusione tra vita e arte per «ricostruire l’universo rallegrandolo, cioè ricreandolo integralmente». Nondimeno, va sottolineato che quella ipotizzata da Balla era una modernità che oggi non ci risulta comunque così familiare, poiché se è vero che le attuali forme di espressività artistica vedono nella abolizione delle barriere disciplinari e nelle contaminazioni concettuali prassi oramai acquisite; è altrettanto lecito sostenere che quel vivere l’arte senza soluzione di continuità, nella sfera privata come in quella pubblica, tipico del pensiero futurista, non ha fatto scuola negli anni successivi. Anzi, mai come adesso Diktat mercantilistici e vincoli politici, per giunta stabiliti in maniera eterodiretta, impongono il canone da seguire.
Dal canto suo, Balla si immaginava un differente tipo di società, la quale non doveva basarsi soltanto sul concreto (su quella che noi sogliamo definire polemicamente la cultura del tangibile), bensì su forme astratte della esistenza, così da dare: «scheletro e carne all’invisibile, all’impalpabile, all’imponderabile, all’impercettibile». Tutti questi elementi li possiamo ritrovare pure nella sua casa, con quel vorticoso alternarsi di colori vivaci, e di oggetti da lui stesso realizzati per andare al di là della mera funzionalità. D’altronde, la straordinaria originalità di Balla stava nell’avere intuito come il Futurismo non fosse solo stile, ma specialmente metodo, impostazione teorica e pratica estetica, allo scopo di plasmare il quotidiano attraverso la progettazione di una nuova realtà in cui agire. Una posizione, la sua, che riprendeva, probabilmente inconsciamente, quella di Gesamtkunstwerk («opera d’arte totale»), tanto cara a Richard Wagner.
Ci siamo soffermati molto su di una analisi concettuale della abitazione, piuttosto che sul racconto dettagliato del suo contenuto, dato che in fondo questo luogo è una «idea». Ossia, una allegoria visiva concretizzatasi in oggetti comuni che, per merito del genio di Balla, sono diventati unici. Difatti, con la eccezione dei tre grandi pannelli intitolati Le mani del popolo italiano (1925 ca., smalto su tela) presenti nel Soggiorno – a ricordare come l’amor di Patria fosse per il Futurismo un principio cardine – la casa dell’artista italiano non accoglie pezzi rari, ma una gioiosa e incantevole sequenza di manufatti «ordinari» che Balla si divertì a rivisitare assecondando la propria ispirazione, aborrendo sistematicamente colle e chiodi, ricorrendo invece alla tecnica ad incastro. Mobili, tavoli, sedie e lampadari vennero, come detto, pensati per superare il funzionalismo, così da affermare la «valenza sentimentale» della relazione tra l’Uomo e le cose, riconoscendo a queste ultime il diritto alla eccentricità.
La visita alla abitazione di Balla si attesta come un momento vitale, con la fantasia che viene continuamente stimolata da vividi cromatismi e geometrie curiose, malgrado costantemente coerenti. In essa assistiamo a una sorta di lirica dell’artigianato, tramite la quale emerge la poliedricità del Maestro. Il critico d’arte Maurizio Fagiolo dell’Arco ci teneva a individuare in Balla il capofila di un artigianato artistico «seriale», seppur intimamente legato alla capacità manuale. Tutto il contrario del prodotto industriale, che ha sottomesso l’abilità, privilegiando la accelerazione e la moltiplicazione. Per questo si è in precedenza suggerito come quella balliana fosse una modernità in definitiva lontana dalla nostra, giacché noi viviamo l’epoca dell’appiattimento della merce, la quale nulla ha a che spartire con la ingegnosità individuale.
Aperta solo fino al 28 novembre
Concludiamo, con delle riflessioni agrodolci. Ottimo che la Casa sia protetta da vincolo di tutela dal 2004, come del resto l’averla resa nuovamente godibile per il pubblico ne ha interrotto il sostanziale oblio. Purtuttavia, alcuni soliti e compulsivi italici mali paiono impossibili da eliminare. Ci riferiamo al fatto che il fantasmagorico universo creativo in via Oslavia tornerà a chiudere la sua porta il 28 novembre del 2021, e non si sa nemmeno per quanto tempo. Ora che si è allestito questo specialissimo museo di quartiere, perché non renderlo permanente? Sin troppo a lungo abbiamo tentato di spiegare che un museo non è una mostra, ma ci rendiamo conto di aver «scritto nell’acqua», per dirla con John Keats. (da Il Borghese)