Giornale di Bordo. Perché il centrodestra non deve farsi cogliere dalla sindrome della disfatta

Un commento di Enrico Nistri sulle recenti amministrative e il parallelo con le comunali del 1993. Ipotesi per un riscatto immediato

Elezioni comunali

Amministrative dell’autunno 1993: chi mai le dimenticherà? Anche allora il centrosinistra vinse ai ballottaggi nelle maggiori città, però la sua fu una vittoria di Pirro: pochi mesi dopo, nel marzo dell’anno successivo, i rapporti di forza furono ribaltati e si aprì la strada alla sia pur effimera esperienza del primo governo Berlusconi. Le elezioni anticipate, che erano state volute e quasi imposte per aprire la strada, grazie al meccanismo dell’uninominale, a una maggioranza egemonizzata dall’allora Pds, si rivelarono un boomerang per la sinistra, che a Roma dovette accontentarsi del Campidoglio, senza entrare a Palazzo Chigi.

Non ho disegnato questa simmetria con intenti autoconsolatori dinanzi a quella che rimane, se non una débâcle, una pesante sconfitta del centrodestra. L’odierna congiuntura politica, anzi, risulta sotto vari aspetti antitetica rispetto a quella dell’autunno di 28 anni fa. Le elezioni amministrative del 1993 videro sì la sconfitta (di misura, per altro) di Fini e della Mussolini a Roma e a Napoli. Ma, a parte il fatto che a Milano governava una giunta a trazione leghista, costituirono la premessa per il superamento della pregiudiziale antifascista. Oggi, invece, la campagna elettorale per le amministrative si è svolta proprio all’insegna di un neoantifascismo di ritorno e i festeggiamenti per i sindaci di sinistra neoeletti hanno avuto come colonna sonora “Bella ciao”. I risultati conseguiti al ballottaggio da Fini e dalla Mussolini furono inoltre ottenuti senza il sostegno di una coalizione più ampia, ma sull’onda di un semplice voto di stima e di protesta: Forza Italia sarebbe venuta dopo e il Msi non era ancora Alleanza Nazionale. Domenica e lunedì scorso i candidati del centrodestra potevano – almeno sulla carta – contare sul sostegno di tre partiti, che evidentemente non li hanno saputi sostenere abbastanza.

Anche se il clima magico di quell’autunno-inverno del 1993 è difficilmente ripetibile, credo però per almeno tre motivi che l’insuccesso delle recenti comunali non debba innescare nel centrodestra una sindrome della disfatta che sarebbe deleteria anche nelle prospettiva di elezioni politiche più o meno vicine.

Il ko nelle metropoli

Matteo Salvini e Giorgia Meloni

Il primo è il fatto che la sconfitta del centrodestra ha riguardato soprattutto i capoluoghi, mentre Lega e Fratelli d’Italia ottengono ormai i risultati migliori in provincia. Non credo sia un fatto positivo, come ho già ripetuto in altre occasioni: anche i seguaci degli “dei falsi e bugiardi” si arroccarono nei pagi, nei villaggi, tanto da essere chiamati “pagani”; ma poi vinse il Cristianesimo. Però, positivo o no, resta un fatto.

La sinistra radicata nei comuni

Il secondo è che tradizionalmente la sinistra prevale nelle elezioni amministrative perché ha una capacità di gestire il potere locale molto maggiore della destra. È una capacità maturata ai tempi del vecchio Pci, che imponeva ai deputati di devolvere buona parte degli onorari al partito, ma poi redistribuiva questo denaro ai sindaci eletti nelle proprie liste, che svolgevano un compito molto oneroso per compensi, specie nei piccoli centri, poco più che simbolici, retaggio dell’Italia prefascista e poi fascista, in cui il primo cittadino era in genere un notabile, spesso un ufficiale in congedo o un rentier. Saper gestire il potere non significa necessariamente governare bene: significa non dimenticarsi dei propri sostenitori dopo essere stati eletti, saper fare una politica culturale (tanti assessorati alla cultura sono stati negli anni Settanta dei piccoli minculpop) e persino estera, con la rete dei gemellaggi, stabilire stretti contatti col volontariato, promuovere “progetti” nelle scuole, magari in materia di “gender”, favorire gli esercizi commerciali “amici”, persino nella viabilità, assumere più o meno discrezionalmente nelle partecipate, finanziare pubblicazioni, e ovviamente utilizzare come merce di scambio la risorsa delle licenze edilizie. Certo, assunzioni clientelari e piani regolatori ad personam non sono un’esclusiva dei Comuni amministrati dalla sinistra, ma a destra il clientelismo – in sé deprecabile – non sempre è stato accompagnato dalla capacità di fare sistema e finalizzato a un chiaro disegno politico.

Nelle elezioni politiche questa ipoteca clientelare è meno pesante. Si vota più l’idea che la persona, anche in tempi di maggioritario, sia pur parziale. E chi non ha molte idee, anche a destra, vota sotto il peso di paure non ingiustificate: la patrimoniale, lo jus soli, gli sbarchi, la dittatura sanitaria, gli stranieri che rubano il lavoro, i ticket sanitari, gli zingari che entrano nelle case, e chi più ne ha più ne metta. Non ci si preoccupa se il sindaco o l’assessore di sinistra, se non l’abbiamo votato, metterà una rastrelliera per le biciclette davanti alla nostra bottega o ci negherà l’agognato permesso di fabbricazione.

L’astensionismo

Il terzo motivo è l’altissimo astensionismo che ha caratterizzato questa tornata elettorale, nonostante la possibilità di votare anche il lunedì fino alle 15. Un astensionismo, dunque, non certo balneare, ma intimamente motivato. A una prima analisi sembrerebbe che questa astensione abbia danneggiato soprattutto la destra e i cinque stelle, che però sono un caso a parte. Induce a crederlo il fatto che siano stati soprattutto i quartieri periferici e popolari, in cui Lega e FdI speravano di attingere i maggiori consensi, a disertare le urne. Senza dubbio è auspicabile che nel voto politico l’astensione cali; ma è al tempo stesso auspicabile che il centrodestra s’interroghi sui motivi che hanno indotto all’astensione una parte forse decisiva del suo elettorato, invece di consolarsi con sondaggi che lo danno a livello nazionale intorno al 47 per cento dei consensi. Altro infatti è rispondere al quesito di un intervistatore telefonico, altro uscire di casa, fare a volte la fila, mettere una croce su un simbolo e magari sul nome di un candidato per cui non si nutre stima, e che è stato “paracadutato” per mere logiche di coalizione (e non mi riferisco ai candidati sindaco delle ultime amministrative, che rispetto per il coraggio dimostrato nel metterci la faccia, pur sapendo che la sinistra può essere molto brava nel far pagare certe scelte).

Questa fascia di astensionismo potrà essere recuperata, a patto che non ci si limiti a contare sulla maggiore attrattiva sull’elettorato del voto politico. Credo che un po’ tutta la classe dirigente del centrodestra dovrebbe fare un bagno d’umiltà. Non sempre, purtroppo, il candidato di destra, una volta eletto, è incline a mantenere un contatto diretto con gli elettori. Troppo spesso è convinto di aver esaurito il proprio ruolo nella politica quando ha conquistato un posto per sé, invece di preoccuparsi di procurare opportunità di lavoro ai sostenitori. Mi accorsi – ancor prima delle esternazioni finiane – del declino del progetto politico di Alleanza Nazionale quando scoprii che a cucinare e a servire a tavola nelle feste tricolori era in prevalenza personale esterno e che l’affissione dei manifesti era delegato a bande di albanesi. Nessuno è disposto a grigliare bistecche e a lavare marmitte, se poi l’assessore o il deputato neoeletto quando si reca a sottoporgli un problema gli fa fare anticamera. Finito l’entusiasmo per mani pulite, cominciava l’epoca delle marmitte sporche.

p.s. conoscevo da anni indirettamente Enrico Michetti, grazie a una rubrica che tiene su Radio Margherita, l’emittente che preferisco perché trasmette dalla mia cara Trinacria solo canzoni in italiano, e soprattutto degli anni d’oro della musica italiana. È una rubrica di citazioni di autori celebri, in cui è molto difficile non riconoscersi. Inutile dire che, anche prima della sua candidatura, mi rimaneva simpatico. Ora, vorrei essere io a regalargli una citazione. Si tratta dell’immortale If, la lirica che Joseph Rudyard Kipling dedicò a Sir Leander Starr Jameson, medico e uomo politico britannico, promotore di una sfortunata spedizione nella guerra angloboera.

Mi limito a citarne l’incipit:

“Se saprai mantenere la calma quando tutti intorno la perdono…”

Il resto è un po’ troppo lungo per essere declamato con voce stentorea ai microfoni di una radio (lo si recupera comunque facilmente su internet, anche recitato in lingua originale); ma credo che in molti faremmo bene a rileggerci Se almeno nei momenti cruciali della nostra vita

 

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