Nonostante l’altisonante citazione di un Pontefice assai popolare, superficialmente definito progressista, stando ai miserandi schematismi mentali della nostra epoca fagocitata dal leviatano mediatico, Léon Bloy pare irrimediabilmente destinato ad una (scomodissima) memorialistica settaria, alla polverosa sopravvivenza presso circoletti del conservatorismo cattolico, alimentando così un pregiudizio di genere letterario, ozioso equivoco o comodo stereotipo, ad ogni modo accasamento inappropriato; oppure a rimpolpare con una stravaganza ulteriore il sincretico catalogo delle edizioni Adelphi, biblioteca pericolosa in grado di sterilizzare gli assolutismi di parte – vieppiù, con perfido intento d’equiparazione relativista, quelli cattolici – per farne un mausoleo di sapienza onnisciente alla portata di tutti e di nessuno. Ebbene, la caratteristica principale dell’opera bloyana pare proprio essere la riottosità alle convenzioni accomodanti, ortodossia insofferente al cospetto della ruffianeria intellettualistica, della corporazione artistica (scrisse delle enormità, ad esempio, contro Raffaello e il rinascimento), degli attestati d’idoneità letteraria conferiti all’epoca: la sua che tanto disprezzava, ed era pure sempre la Belle époque, figuriamoci la nostra. Morto anche da postumo, irrecuperabile in tempi nichilistici, intellettualmente spacciato, politicamente inutilizzabile, difatti paradossalmente apprezzato in ambienti anarchici, tuttavia folgorante per gli eremiti contemporanei. Polemista violento, antimoderno, allucinato bastian contrario, sovente ottuso tanto da sembrare comico, moralista scandaloso tacciato d’antigiudaismo (Dagli ebrei la salvezza si discosta nettamente dalla classica produzione libellistica antisemita) epperò anticolonialista, in realtà fustigatore implacabile del generalizzato paludamento borghese, sicché furibondi strali in primo luogo riservati al flaccido cattolicesimo francese, o di ciò che ne era rimasto dopo i Lumi e i fasti napoleonici, facendosi così nemici tutti, progressisti e conservatori, soprattutto i cheti benpensanti. Si legga a tal proposito il gustoso breviario Esegesi dei luoghi comuni, laddove frasi fatte di cosiddetta saggezza popolare vengono fatte a pezzi con implacabile arguzia.
La pagina come sputacchiera, il testo quale tavolaccio tarlato da lavoro d’un fabbro ferraio, buono per raffinatissimi rigetti di bile, di sarcastiche ire, già nel romanzo d’esordio – Il disperato (1887) – Bloy riversa il suo retaggio simbolista, l’ascendenza baudelairiana, distillando una scrittura superba, calandola sapientemente in sordidi sprofondamenti suburbani, in catacombali rivendicazioni e orgogliosi dinieghi, Dickens riadattato alle Gallie ma con l’aggiunta di un furore inedito, apocalittico e viscerale, talvolta caustico, diretto come un gancio alla boxe sul volto del benemerito progresso, pugno offerto alle guance mollicce degli zelanti portavoce dell’anticlericalismo, sganascione rivolto agli oziosi scribacchini di moda ai tempi suoi. I poveri dunque come paradigma ribelle, periferie, banlieue, affastellamenti di disperazioni domestiche, topaie parigine gonfie d’umidità e pregne di miseria, è lì tra i rifiuti che lo scrittore va a pigliare personaggi e scenografie per fondare con un certo rancore la sua poderosa, intransigente, visuale ribaltata: il successo fa schifo e il talento è una disgrazia, il mondo moderno è un letamaio, cloaca affaristica, avido consesso d’eunuchi, di pavidi fiancheggiatori, dove l’ingiustizia regna sovrana dacché la ricchezza, volgare materialismo dei tempi ultimi, regge il proprio privilegio a discapito di molti. Di troppi. Tant’è che Bloy, anticipando e smentendo il comunismo, può a ragion veduta essere considerato l’unico vero maestro di Louis-Ferdinand Céline, medico dei poveri e genio maledetto della letteratura novecentesca. Certo la rivoluzione stilistica dell’autore di Viaggio al termine della notte diverge per musicalità, differisce per la vocazione estetizzante all’alienazione, portata da Céline alle estreme conseguenze – nichilistiche nei contenuti quanto inebrianti nella forma – privata com’è da qualsivoglia ipotesi di redenzione, di metafisica salvezza. Bloy invece dà l’idea di essere l’ultimo e unico scrittore “sulfureo” a credere in Dio, a confidare ciecamente nell’incarnazione cristica tangibile, sanguinolenta, financo materialistica, mentre attorno a lui fischiettano solo falsità, farisaiche convenienze, piaggeria, ipocrisia, sudditanze al potere.
Collerico disprezzatore dei moderati, ipnotizzato dal condottiero Corso (si legga il vaneggiante ma bellissimo ritratto in L’anima di Napoleone), romanziere in preda a furori mistici, burbero regressista ma tutt’altro che beghino, Bloy trovò saltuariamente rifugio in appartate fortezze monastiche, enclave di certosine regole, pur senza mai abbandonare l’agone parigino, il ring più consono al suo temperamento fumantino. E poi le donne. Mentre Céline stilizzava con feticismo spionistico le sue adorate ballerine, camuffando talvolta la figura della cocotte, affidandole i panni della femmina emancipata e cosmopolita (Molly l’americana di Viaggio al termine della notte), Léon Bloy più brutalmente delineava le caratteristiche della puttana quale unica vera femmina, perfetta sposa giacché la vita è corrotta, encomiabile ai suoi occhi parimenti al comune delinquente, al paria escluso dal consesso civico fondato sull’avidità e sul quieto vivere, cavandone fuori addirittura una santa. Come la prostituta – si veda Véronique, sfigurata e redenta, volontariamente fattasi cavare via i denti per eliminare la tentazione demoniaca della propria bellezza, ne Il disperato – ama tutti per non amare nessuno in modo esclusivo, così la martire inerte alla vita la sublima amando tutti e nessuno essendosi votata a Dio, all’assoluto. Altresì nel suo capolavoro, La donna povera (1897), Bloy ribadisce il concetto antiborghese insistendo sui rituali di spoliazione, sull’atto sacrificale quale catarsi e riscatto dalla meschinità del mondo: “Non c’è che una tristezza. È quella di non essere santi”.