L’automobile e noi, storia (breve) dell’evoluzione di un rapporto

Giuseppe Del Ninno: "Ho cambiato le mie auto quando proprio non ne potevano più, oggi tempi duri per i motori"

Da quando ha preso il posto delle carrozze, per diventare oggetto destinato alle masse – ricordante la “vettura del popolo”, di hitleriana memoria? – l’automobile è entrata a far parte della nostra quotidianità, e starei per dire: della nostra famiglia. Negli anni 60 del Novecento, qualche bello spirito la soprannominò “l’amante di latta”, per le cure maniacali che le dedicavano alcuni morbosi proprietari: lavarla spesso e asciugarla di persona; ricoprirla con un telo con su dipinta la targa, per ripararla dalle intemperie e dissuadere i malintenzionati; assoggettarla a una manutenzione assidua  – non solo carburante, ma olio, acqua, pressione gomme – e darle l’ultimo tocco con il piumino da spolvero; impedire a figlioletti ed estranei di consumare merende o di fumare sigarette nell’abitacolo, e così via.

 

Col “miracolo economico”, oltre alla diffusione delle vetture, si avviò una spirale consumistica che coinvolse anche il mondo dell’auto: alla fedele compagna di gite e viaggi, si cominciò a preferire l’avventura breve con questo o quel modello accessoriato, insomma si cominciò non più a conservare l’auto acquistata con sacrificio (per lo più in contanti), bensì a cambiarla spesso, grazie anche alle rateazioni e agli incentivi ricorrenti. Stop ai rapporti stabili – almeno con le auto… – e via ai capricci, alle occasioni, ai giri di valzer (sempre con le auto).

 

Naturalmente, non sono del tutto estinti gli automobilisti fedeli, quelli che certa opinione pubblica e certi governi, influenzati dalla propaganda ecologista, hanno individuato come “untori”, come propagatori di fumi e polveri sottili nell’aria delle nostre città, come ottusi oppositori della nuova frontiera ambientalista e difensori dell’orrendo diesel (ma, più in generale, delle vecchie auto – tutte da rottamare! – oltretutto nemmeno più curate come una volta, con le loro ammaccature arrugginite, le gomme lisce e il rumore di motori sbidonati).

 

Lo confesso: appartengo alla categoria di “fedeli all’auto”, a quella categoria di automobilisti che del veicolo ha fatto quasi una “persona” di famiglia, che non si è lasciato e non si lascia sedurre da quella linea aerodinamica, da quel colore alla moda, da quei fari ammiccanti e, oggi, dai mille ammennicoli elettronici spacciati da campagne pubblicitarie ossessive. Ho cambiato le mie auto quando proprio non ne potevano più: ricordo ancora il suicidio da bonzo buddista della mia Fiat 500, spossata dai tanti kilometri e dai mille interventi meccanici e di plastica (pardon di carrozzeria). Ci aveva portato perfino in Austria, carica di bambini e di bagagli, aveva avuto ospiti illustri come Alberto Sordi, ci aveva scarrozzato in tanti percorsi cittadini di lavoro e in tante escursioni gioiose. Poi, un giorno, un ritorno di fiamma, i vani tentativi di spegnimento, lo spavento prima, la pena e il dispiacere poi, a guardare il suo scheletro fumante.

 

E questo dispiacere si è rinnovato ogni volta – le rare volte – che ho dovuto abbandonare un’auto, perché portata via da un carro attrezzi, o perché lasciata in permuta da un concessionario. Avevi l’impressione che ti guardasse con i suoi occhioni, pardon, con i suoi fanali ormai appannati come da una cataratta incipiente, delusa dalla tua improvvisa volubilità.

 

Oggi, malgrado la pubblicità e la campagna governativa di incentivi, sono tempi duri per l’automobile: le città ingessate da divieti di vario genere, i limiti di velocità sulle strade extra-urbane, la pandemia che impedisce la libera circolazione… Eppure, magari in leasing o in affitti a lungo termine, si vedono legioni di auto nuove e sculettanti: la popolazione di quelle vecchie, con motori asmatici, fari borgni, cinghie di trasmissione stridenti e scappamenti rombanti e fumiganti, appare inesorabilmente condannata alle soste nelle “domeniche ecologiche” o addirittura alla rottamazione. E non posso pensare alla loro fine “cruenta” sotto una pressa o al “mercato degli organi” ancora fiorente nei residuali fortini di “sfasciacarrozze”.

 

 

Giuseppe Del Ninno

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