Referendum (di G. Del Ninno). Altro che tagli, ci vorrebbe una nuova assemblea Costituente

I partiti sono alle prese con calcoli da bottegai della politica ma l'unica strada per ritrovare forza è quella di tornare laboratori sociali e ideali

4 Novembre, Frecce Tricolore all’Altare della Patria

Da decenni in Italia s’invocano le riforme: oggi ce le chiede con voce padronale l’Unione Europea, ma – si aggiunge – dovremmo essere noi per primi ad avviare i necessari processi, per il bene del Paese. E sì che in tutti questi anni – Prima, Seconda o Terza Repubblica – di riforme ne sono state fatte: per limitarci ad alcune, Gelmini per la scuola, D’Alema per il titolo Quinto della Costituzione, Renzi per il lavoro, con il suo Job’s Act, la Fornero per le pensioni… Altre sono abortite sotto i colpi di referendum confermativi che le hanno… negate: si pensi alle autonomie regionali volute dal governo Berlusconi condizionato dalla Lega bossiana, o a quella dello stesso Renzi, imperniata sull’abolizione del bicameralismo perfetto.

 

Dunque, riforme. Anzi, riforme continue, per tener dietro al costume che cambia, agli assetti internazionali in evoluzione, all’economia ed alla tecnologia in incessante mutazione, e così via. Del resto, il cambiamento è alla base della vita, mentre la stabilità – se non proprio l’immutabilità – viene percepita come metafora della morte. Ora, in attesa che l’Unione Europea ci faccia sapere sotto quali Forche Caudine dovremo passare per ottenere i suoi pelosi sussidi e prestiti, abbiamo messo sul tavolo della politica il referendum per la riduzione del numero dei parlamentari. Insomma, cominciamo a cambiare dal poco.

 

Ci vorrebbe una Costituente

Sembra che tutti i malfunzionamenti della macchina statale, tutti gli intoppi nella catena decisionale che hanno determinato l’arretratezza dell’Italia rispetto alle altre nazioni in questi decenni, dipendano dall’eccessivo numero di deputati e senatori. Così, invece di metter mano ad una radicale, complessiva, organica riforma della Costituzione, nata da famiglie ideologiche oggi inesistenti o residuali, ci si balocca – e si anima il meschino dibattito politico – con queste alzate d’ingegno buone a dare ossigeno a questa o quella formazione politica, a seconda dell’esito.

Ben pochi osano invocare un’Assemblea Costituente che a quella per me – e non solo per me – indifferibile, radicale revisione ponga mano; così, gli argomenti agitati dai fautori del “sì” o del “no” al citato referendum mi appaiono avulsi dalla grigia realtà che viviamo. Anche in questo caso – come nella famigerata riforma renziana di cui sopra – ognuno degli schieramenti arruola costituzionalisti insigni, alcuni a sostegno, altri contro. Tanto per appoggiarsi, anche qui, ai “tecnici”. Sullo sfondo, la crisi della democrazia rappresentativa, che a parole tutti vorrebbero salvaguardare e addirittura potenziare; ma – particolare che per lo più si tace o si sottovaluta – come motore della decisione in cabina elettorale, agiranno il risentimento, la disistima, financo l’astio del popolo nei confronti dei suoi rappresentanti, giudicati di volta in volta inetti, avidi, incompetenti, voltagabbana e, quindi, da punire il più e prima possibile, mandandone a casa un buon numero. Altro che esigenze riformatrici: sarà il diffuso rancore dell’antipolitica a decidere il referendum.

Dall’antipolitica alla politica dei calcoli

A dire il vero, l’antiparlamentarismo – se non proprio l’antipolitica – in Italia ha dei padri nobili. Come il Prezzolini de “La Voce” (vedeva il Parlamento come Istituzione transitoria per la storia della Nazione e la forza rinnovatrice della folla contrapporsi alle alleanze e ai giochi di Palazzo); oppure come il Papini di “Lacerba”, che contestava “il commercio di ideali in cui è sprofondato l’istituto parlamentare”, in un moto di disgusto condiviso da Gaetano Salvemini, il quale bollava Giolitti come “ministro della malavita”, come tale non legittimato a rappresentare il paese, con le sue artificiose maggioranze parlamentari. Tutti argomenti ancor oggi validi.

Ad aggravare la nostra situazione, giocano i calcoli del profitto a breve termine che ognuna delle forze in campo articola sul suo pallottoliere: da un lato, i pentastellati che, riportando un successo su uno dei principali cavalli di battaglia della loro crociata antipolitica, mirano a recuperare quei consensi perduti proprio a partire dal trionfo nelle elezioni del 2018; al loro fianco, un amletico PD, che, per non far crollare il governo in cui sono succubi degli alleati grillini, ostentano un sia pur tiepido e ondivago sostegno al “sì”; sul fronte opposto, il centrodestra, che da una vittoria del “sì” si aspetta intanto un tentativo di scioglimento delle Camere, con nuove elezioni e, in prospettiva, un premio di maggioranza dalla legge elettorale che ne dovrebbe derivare col riassetto dei collegi uninominali (previsione generalizzata di un “cappotto” a danno del centrosinistra). Calcoli di bottega.

Rissa in galleria, emblematico quadro di Umberto Boccioni

Un’antica e nuova idea di partito

Questo scenario di breve periodo andrebbe a scapito della rappresentanza sia territoriale – regioni e province vedrebbero ridurre o azzerare i propri eletti – sia ideale (o d’interessi), con ulteriore perdita di contatto fra eletti ed elettori (si passerebbe da un eletto ogni 96.000 elettori a uno ogni 150.000). Per tacere dell’influenza che acquisterebbero i rappresentanti regionali, in occasione dell’elezione del Presidente della Repubblica. Ma non è di questo che voglio parlare, né della qualità dei nostri rappresentanti, pochi o tanti che siano: i criteri di selezione dovrebbero far parte di quella generalizzata revisione costituzionale alla quale accennavo. E ne dovrebbe far parte una rivisitazione del Partito, già cinghia di trasmissione fra la società civile e quella politica.

 

D’altra parte, la crisi del Parlamento è sotto gli occhi di tutti, ed è stata soltanto accentuata dal Covid-19 e dall’inopinata megalomania del Presidente del Consiglio: istituzione esautorata di fatto, impacciata da regolamenti macchinosi, alla quale approdano soggetti sempre meno qualificati, in forza di leggi elettorali che si susseguono, senza che si riesca a trovare – in questa materia sì – una decorosa stabilità. Ormai la rappresentanza che s’invoca è quella degli interessi di questa o quella categoria, di questo o quel gruppo sociale: almeno le Corporazioni di una volta avevano una loro regolamentazione e i conflitti venivano armonizzati dalla superiore autorità dello Stato; oggi le lobbies – che pure potrebbero e dovrebbero trovare una disciplina giuridica alla luce del sole – sono quei gruppi di pressione che operano sott’acqua, irresponsabilmente e ai margini della legge (talvolta violandola). In tale quadro, la funzione stessa del partito politico appare superata, gli interessi delle varie categorie potendo essere meglio tutelati e rappresentati dai Sindacati (datoriali, dei lavoratori, dei pensionati). Il Partito nasce e trae la sua ragion d’essere dall’appartenenza a una storia identitaria a forte contenuto ideale, e si giustifica come laboratorio di aggiornamento di quel patrimonio ideale e scuola di formazione delle classi dirigenti. Altro che cartelli elettorali o congreghe di notabili sottratti al giudizio popolare e pronti a cambiare bandiera ad ogni soffio di vento!

 

 

Giuseppe Del Ninno

Giuseppe Del Ninno su Barbadillo.it

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