Serie tv. “Little Fires everywhere”, tante buone ragioni non fanno una grande serie

Troppa carne al fuoco, l'ambizione di un trattato filosofeggiante non centra l'obiettivo. Occasione perduta

Negli ultimi anni le serie tv ci hanno abituato al metodo gratta e vinci, il che non vuol dire che guardandole rischiamo di aggiudicarci ricchi premi e cotillon, quanto più che altro che ci servono una facciata di apparenze che gratta che ti rigratta finisce per rivelare scenari torbidi e vagamente inquietanti.

Prima vi fu Desperate Housewives, con le sue case plasticate che dietro rivelano il loro set completo di orrori, bugie e complotti. In tempi più recenti, è arrivata la miniserie dal cast stellare Big Little Lies e a ruota, dallo stesso autore, Sharp Objects che su piani e con schemi diversi ci mettono entrambe in guardia dalle pericolosità delle apparenze, soprattutto quelle estetiche e sociali.

Soliti presupposti, trama non vola

Com’è come non è, Little Fires Everywhere, nuova miniserie Hulu (in Italia da poco su Amazon Prime) vuole inserirsi in quel solco lì, che rischia di essere già un po’ troppo arato: l’inizio è da cliche con la C maiuscola: famiglia americana tipo tutta luci di Natale e omini di marzapane, quartiere cartonato, arrivo di madre single nera artista e un po’ freak che fa saltare il banco.

L’intera trama finisce un po’ per seguire questo schema, senza mai prendere il volo per davvero. Si parte da un inizio dalle tinte crime e si va a ritroso, con tanto di episodio flashback ampiamente sdoganato da True Detective.

I temi dell’attualità

Dapprincipio sembra che la serie si concentrerà sugli intrecci adolescenziali e su un macro-scontro tra due idee di vivere la vita: quella bianca consumista e borghesizzata da un lato e quella nera, autentica e povera dall’altro; la cosa sembra farsi interessante quando capiamo che non è solo la parte patinata a nascondere del marcio sotto al tappeto.

Ma, con un metafora pirica che faccia il verso al titolo, si potrebbe dire che Little Fires Everywhere è una serie a combustione lenta che vuole aggiungere tanta carne sul fuoco. Un po’ troppa e un po’ in fretta per soli 8 episodi.

Allo scontro di cui sopra si aggiunge quindi da un lato il grande tema, ora più che mai attuale, del razzismo sistemico statunitense e che viene svolto su più fronti: il più evidente è affidato a Mia Warren (Kerry Washington, già Olivia Pope di Scandal) che in quanto nera, madre single e artista attira su di sé tutta una serie di preconcetti; dall’altro ci troviamo l’atteggiamento buonista/borghese umanitario di Elena Richardson (Reese Whiterspoon) e di sua figlia maggiore Lexy che si sentono attivissime contro le discriminazioni e poi sono le prime a scivolarci dentro in maniera del tutto ingenua e ignara e per questo ancora più fastidiosa.

Il secondo grande tema è l’orientamento sessuale e siccome l’omosessualità maschile risulta già un po’ sdoganata, la serie si concentra su quella femminile della figlia minore di Elena, la teen ribelle punk e artista Isabel/Izzy, che finisce per scontrarsi contro il bullismo a scuola e i preconcetti della madre, casalinga modello anni 50 (ma la serie è ambientata negli anni 90, ahinoi).

Chi troppo vuole…

Come se tutto questo non fosse abbastanza, ci mettiamo dentro il tema del senso di appartenenza a una comunità, la morale sul possesso delle cose importanti e non di quelle futili, il “non tutto è oro quel che luccica” e anche un fermorino motivazionale sul perché non bisogna mettere nel cassetto i propri sogni per conformarsi alla visione che la società o la famiglia ha di noi (spoiler: perché ti ritrovi come una casalinga esaurita con quattro figli da gestire e una vita e una sanità mentale stabile come un castello di carte).

Oltre a questi pesi massimi, che già avrebbero da far parlare serie da 22 puntate l’una, Little Fires Everywhere non si accontenta e ci mette in mezzo pure l’aborto, gli uteri in affitto e il problema della maternità adottiva (chi è davvero madre: chi genera o chi cresce il neonato?).

Insomma, ne esce una serie che avrebbe l’ambizione di un trattato filosofico post-contemporaneo, ma che temo non c’entri il bersaglio che si era prefissata.

Fuochi fatui

Tecnicamente è tutto impeccabile, fotografia, dialoghi, attori (che bello rivedere Joshua Jackson e quanto si finisce con empatizzare con Bill, soprattutto perché è lui che lo interpreta) e questo rende la serie comunque un prodotto valido e bello da vedere; ma alla fine, che non ha caso diverge da quella del libro di Celeste Ng, da cui la serie è tratta, ci si sente più che altro spaesati e nessuna storyline sembra concludersi in maniera soddisfacente. Probabilmente arriverà una seconda stagione, perché la serie ha comunque ricevuto ottimi ascolti e Hulu si conferma una delle piattaforme da tenere d’occhio, ma per ora, alla fine della fiera, il tutto ricorda quando metti tanti ciocchi nel camino sperando che il fuoco divampi e infine finisce per spegnersi. Mannaggia.

 

Runa Bignami

Runa Bignami su Barbadillo.it

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