Giornale di Bordo. Le critiche del “Foglio” alle destre e il peso dei sovranisti

La pandemia come occasione per ridefinire le linee guida della proposta politica dell'opposizione patriottica

Giorgia Meloni con Matteo Salvini ad Atreju
Giorgia Meloni con Matteo Salvini ad Atreju

E se la destra facesse reset?

Non sono mai stato un appassionato “fogliante” e ho sempre guardato con un po’ di scetticismo al quotidiano fondato quasi un quarto di secolo fa da Giuliano Ferrara, anche quando sosteneva (più di oggi, per la verità) idee prossime alle mie. Ho sempre covato il sospetto che molti dei suoi lettori fossero il pendant di destra di quanti compravano e in parte ancora comprano “La Repubblica” per dimostrare di appartenere a una sinistra intelligente. Ma su questo pesa probabilmente la mia antipatia per Veronica Lario, cofondatrice del giornale (anche prima che dimostrasse la veridicità della nota barzelletta berlusconiana sul modo migliore di trasformare un’oca in un pitbull), la mia insofferenza per ogni forma di snobismo (a parte forse lo snobismo di non essere snob, forse il più grave di tutti) e anche il ricordo un po’ tristo delle circostanze in cui conobbi e per qualche tempo fiancheggiai Giuliano Ferrara, nell’autunno del 1997, nella sua coraggiosa e un po’ donchisciottesca campagna contro Antonio Di Pietro nel collegio senatoriale del Mugello.

Ricordo ancora la fredda nottata di quel 9 novembre 1997 in cui in una sala dell’Hotel Minerva arrivarono i risultati delle suppletive, che lo videro nettamente sconfitto. All’epoca ero impegnato in politica e avevo cercato in tutti i modi di far convogliare su di lui i voti degli elettori di destra, che non lo potevano vedere e non perdevano occasione di rinfacciargli i suoi precedenti politici, le trasmissioni sul sesso in Tv, persino un numero di “Panorama” in cui accusava di abusi i nostri soldati in Somalia. Tanta fatica per nulla, persino un articolo in prima pagina sul “Secolo d’Italia” servì solo ad attirarmi critiche, e la cosa mi dispiacque perché Ferrara aveva fatto di tutto per raggranellare consensi, senza spocchia di sorta: era andato persino a parlare, lui ex comunista, in una sede un po’ squalliduccia dell’ex Cisnal. Una sgradevole associazione di idee mi fa collegare “Il Foglio” a quella gelida nottata novembrina.

Sul “Foglio” di oggi, della direzione post-Ferrara e post Giuli, nutro qualche riserva. Ma non posso fare a meno di concordare, nella sostanza, con l’editoriale che il suo direttore ha dedicato ieri alla crisi della destra. Perché che la destra sia in crisi ormai dalle elezioni in Emilia-Romagna è innegabile, e il fatto che Fratelli d’Italia recuperi in parte i consensi persi dalla Lega raggiungendo e superando secondo i sondaggi i livelli della vecchia Alleanza Nazionale può essere motivo di consolazione solo per qualche “idealista”, nell’accezione che Almirante dava scherzosamente all’aggettivo: un politico che ha come idea fissa la lista delle candidature e sogna già un seggio in Regione o al Parlamento. L’esperienza insegna che può essere meglio essere al governo con il cinque per cento che all’opposizione col quindici, a condizione naturalmente che si sappia governare, imponendo i propri uomini e le proprie idee, cosa che la destra non sempre ha saputo fare.

I limiti delle strategie sovraniste

Cerasa svolge in poco più di due colonne un’indagine spietata ma non priva di argomentazioni valide sui motivi per cui, tanto per citare il titolo del suo editoriale, la destra dovrebbe fare reset. Certo, enfatizza un po’: non è vero, ad esempio, che i leader del Carroccio e di Fratelli d’Italia non buchino più lo schermo. Ma è la strategia a risultare carente (e in certi casi anche la tattica: che senso ha rifiutarsi di andare a villa Pamphili perché non è una sede istituzionale e poi disertare il Parlamento?).

Un’emergenza di portata planetaria come la pandemia avrebbe potuto costituire l’occasione per il rilancio di tematiche consustanziali al repertorio ideologico e anche all’immaginario collettivo della destra: la riflessione sulla globalizzazione e i suoi rischi, l’esigenza di limitare la penetrazione economica cinese, i rischi della delocalizzazione di produzioni indispensabili, la denuncia della scarsa solidarietà europea. In più avrebbe potuto rappresentare l’occasione per chiedere una sospensione dell’alleanza giallo-rossa e la nascita di un governo di solidarietà nazionale, l’unico qualificato a chiedere limitazioni senza precedenti delle più elementari libertà individuali.

I vantaggi di stare all’opposizione?

Si è registrata invece una continua alternanza di posizioni e di esternazioni, dall’“aprire tutto” al chiudere tutto, una richiesta di sussidi per alcune categorie (soprattutto del lavoro autonomo) speculare a quella della sinistra per i lavoratori dipendenti, ma slegata da una visione d’insieme dell’economia nazionale, e la rinuncia a incalzare Conte e il governo a fare, vista la situazione, un passo indietro e a dar vita a una nuova maggioranza, per analogia con quanto fatto dai conservatori britannici nella seconda guerra mondiale. Su quest’ultima scelta ha influito probabilmente la tentazione di lucrare i vantaggi dell’opposizione, vista la grave crisi economica legata alla pandemia; ma questi benefici non emergono dai sondaggi e comunque non è mai un’idea felice sperare nelle disgrazie della Patria.

È stato così permesso a una maggioranza labile ed eterogenea di continuare a governare, con una serie di provvedimenti in parte clientelari, in parte ridicoli (il bonus monopattini, o la mancia per mandare la gente in vacanza in Italia), in parte mal congegnati, come il credito d’imposta per le ristrutturazioni edilizie. Si è avuto paura di andare al governo, ma non si è stati capaci di organizzare un’opposizione coerente e coesa, con dispute sulle forme della protesta che sarebbe stato facile evitare, con FdI che sembra a volte volersi porre come contraltare moderato alla Lega, un po’ come fece, con scarso successo, Fini con Berlusconi, e lo stesso Berlusconi che cerca di proporsi come opposizione riflessiva e ragionevole, accreditabile nell’ambito europeo.

Il contesto internazionale

A tutto questo si aggiunge una congiuntura internazionale estremamente critica, che vede – è giusto dirselo in faccia – la crisi degli esperimenti sovranisti e populisti, con un Trump alle prese con una sorta di 25 luglio a stelle e strisce, con i generali e gli stessi giudici da lui nominati della Corte Suprema che ne prendono le distanze, Putin indebolito dal calo del prezzo dei combustibili, Bolsonaro incalzato a sua volta dalla diffusione del virus e da un’offensiva giudiziaria altrettanto virale. Per non parlare dell’Europa, in cui la destra italiana ha sempre meno validi punti di riferimento, con i sovranisti delle altre nazioni che sono stati i primi a chiedere la chiusura delle nostre frontiere allo scoppio dell’epidemia e poi a opporsi alle nostre proposte di “mutualizzare” il debito.

La crisi del salvinismo come forza di governo, del resto, è esplosa paradossalmente proprio dopo il voto alle Europee, non tanto per la rivelazione pilotata di presunti fantozziani tentativi di ottenere un finanziamento dalla Russia, quanto per l’incapacità della Lega di scegliere un indirizzo politico chiaro, fra anacronistiche minacce di uscita dall’Euro e velleitari tentativi di entrare nell’area dei popolari europei.

Il tema cruciale dell’immigrazione

Su di un punto non consento invece con Cerasa: il tema dell’immigrazione non è superato, ma diventerà prima o poi trainante; se, come in molti paventano, alla pandemia seguirà una recessione con relativa disoccupazione, prima o poi l’opinione pubblica si renderà conto dell’assurdità di sottrarre risorse dal sociale a beneficio degli italiani per finanziare l’accoglienza di presunti profughi. Ma soprattutto emergerà tutta l’irrazionalità di una società signorile di massa in cui un alto tasso di disoccupazione, soprattutto giovanile, convive con l’importazione di manodopera estera per lavori che potrebbero essere onorevolmente svolti dagli italiani.

Dovrebbe indurre a riflettere quanto è successo nel maggio scorso, quando, dinanzi alla minaccia di raccolti rimasti nei campi per carenza di braccia, nessuno ha avuto il coraggio di proporre invece della legalizzazione dei clandestini la revoca del cosiddetto reddito di cittadinanza a chi rifiutava il lavoro nei campi. Così come dovrebbero indurre a riflettere i nuovi scandali che stanno emergendo sulla gestione dell’accoglienza, con sacerdoti e membri della Caritas, non più semplici maneggioni gestori di cooperative, accusati di fare la cresta sui rimborsi spese.

Certo, è più facile dire “porco qui, porco là”, evocare il fantasma della trojka, sollecitare sussidi che dire con franchezza agli elettori quello che nessuno ha il coraggio di dire: che la pacchia è finita anche per gli italiani, che non si può andare avanti a forza di cassa integrazione e redditi d’emergenza, che i prestiti, comunque li si voglia chiamare, bisognerà restituirli, che l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro, non sulla movida, e che tutti dovremo rimboccarci le maniche. Ma ci sono frangenti della storia in cui i popoli sanno premiare chi ha avuto il coraggio di dire la verità. Il post-pandemia potrebbe essere uno di questi.

@barbadilloit

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