Fascismo, persecuzione e intransigenza: la lezione di Renzo De Felice

Un approfondimento nell'anniversario della morte dello storico che ha rivoluzionato l'interpretazione scientifica del fascismo

Alcuni volumi di Renzo De Felice

Renzo De Felice

Il 25 maggio 1996 moriva De Felice. Era nato a Rieti nel ’29 e pur zoppicando negli studi liceali si iscrisse prima a Giurisprudenza poi a Filosofia e laurearsi a Roma nel ’54 in Storia Moderna con Federico Chabod. Ma già prima di discutere la tesi De Felice aveva conosciuto e subìto il fascino di Delio Cantimori: lo confermano i toni confidenziali di alcune lettere [1] ed i suoi primi contributi pubblicati dall’Istituto Gramsci e Mondo Operaio.  

Furono anni anche di impegno politico – nelle fila del Pci, da cui uscirà nel ’56 – come attestano i due “fermi” rimediati dall’Ufficio politico della Questura di Roma nel ’50 (manifestazione contro l’impiego dell’atomica) e dall’Ufficio di P.S. “Viminale” nel ’52 per aver tentato di contestare «la venuta in Italia del generale americano Ridgway» [2]. 

Ma l’influsso del «patriarca della storiografia marxista» [3] Cantimori fu soprattutto metodologico. É la “ricerca” il terreno su cui si consolidò il rapporto tra l’allievo e il «maestro fiorentino» [4]. 

Nel ’61 sarà la Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo a segnare l’inizio dell’esposizione di De Felice. Un tema impegnativo che lo studioso affrontò facendo «parlare i documenti» [5] allo scopo di tutelare la realtà documentaria utilizzata contro ogni tipo di possibile pregiudizio storiografico. Incipit metodologico ben riassunto dalla prefazione di Cantimori che apprezzava i tratti principali del volume come storia qua talis: il distacco ideologico, l’impiego di documenti originali, la minuziosità dell’indagine, l’oggettività dell’esposizione.

Tratti che saranno rinvenibili anche nell’opera monumentale di De Felice dedicata a Mussolini.  All’epoca, avvicinarsi soltanto allo studio del fascismo “facendo parlare i documenti” senza utilizzarli faziosamente per dimostrare tesi pregiudiziali, fu una vera rivoluzione. Lo fu anche all’Einaudi, dove De Felice trovò molta indifferenza come evidenziano i verbali “dei mercoledì di Via Biancamano” [6]: nessuna considerazione per il lavori del giovane storico “modernista” e l’affidamento di un tema da “contemporaneista” non semplice. 

Nell’imboccare le «improvvise e pericolose strade» [7] di ricerca affidategli, gli “anticorpi” marxisti di De Felice non bastarono per ripararlo dalle condanne personali, dalle invidie accademiche, dalle censure editoriali e dalle recensioni negative di chi invece aveva orientato la propria azione ad «una facile popolarità e al furbesco tornaconto politico e/o personale che hanno determinato, dal ’68 in poi, la conversione filocomunista di tanta parte del ceto intellettuale italiano» [8]. E qui iniziano i problemi.

In una nota del volume del ’61 la segnalazione della partecipazione a Vienna dell’allora segretario radicale Leopoldo Pacciardi ad un convegno su Razza e Diritto nel ’39 suscitò un vespaio di polemiche e l’inizio di una «rappresaglia politica» contro De Felice che nel ’62 fu immeritatamente bocciato al concorso per la libera docenza in Storia Moderna: registi dell’operazione, Giorgio Spini e Armando Saitta, entrambi accademici della tradizione azionista – vicino ai “radicali” – e comunista. 

Nel ’64 a De Felice fu commissionata la voce Fascismo in un’importante enciclopedia tedesca: quando l’Autore ricevette le bozze corrette, ben 14 delle 37 pagine erano state censurate. De Felice si rifiutò di firmare quel testo la cui versione integrale vide luce solo nel ’97. Nel ’69 un triste deja vu: la voce “Arturo Bocchini” – redatta da un assistente di De Felice per il Dizionario Biografico degli Italiani – fu emendata dai redattori della Treccani coordinati da Alberto Maria Ghisalberti [9]. Il motivo? Aver riportato, per dovizia storiografica, alcuni giudizi di esuli antifascisti sulla correttezza amministrativa del Bocchini, responsabile apicale dell’apparato poliziesco del Regime (1926-’40).

Nel ’68 fu solo grazie a Romeo che De Felice ottenne l’incarico di ordinario presso il Magistero di Salerno. Nel ’72, pur ottenendo il trasferimento a Roma, De Felice trovò la resistenza di Guido Quazza e Mario Bendiscioli. L’altro membro, Nicola Matteucci, ricordò che la promozione – in genere semplice da conseguire – fu contrastata e decisa solo «dopo una lunga ed estenuante battaglia» e «a maggioranza. Il che fu per molti un vero scandalo».

Nel ’74 fu pubblicato Mussolini il duce. Vol. I: Gli anni del consenso, 1929-1936. In esso De Felice ribadiva il suo netto rifiuto di qualsiasi accomodamento in cambio della propria tranquillità. La sua intransigenza nello studio non lo fece vacillare e con ferma consapevolezza della propria missione di storico non ebbe paura di affrontare anatemi storiografici e processi ideologici pur di affermare una verità storica fin lì volutamente ignorata e/o censurata: «l’essere stati il fascismo e Mussolini anzitutto assai popolari tra gli italiani del Ventennio» [10]. 

L’obiettivo storiografico di De Felice era quello di “comprendere” il fascismo e non “condannarlo”. 

Nel ’75 con l’Intervista sul fascismo, rilasciata a Michael Ledeen deflagrò l’invidia di coloro che non sopportarono di leggerlo intervistato da un giornalista americano: Franco Ferrarotti su Paese Sera gli imputò di considerare il fascismo un capitolo chiuso del ’900; Leo Valiani sul Corriere della Sera parlò di «insensibilità morale»; Paolo Alatri su Il Messaggero di «incompetenza storiografica»; Nicola Tranfaglia su Il Giorno di una «completa riabilitazione del fascismo compiuta da uno storico». Autorevole, ma isolata fu la reazione di Romeo il quale trovò il coraggio di denunciare ciò che De Felice stava subendo: «una reazione isterica, che in più casi ha sfiorato i toni della denuncia e del linciaggio» e nel cui rumore lasciava udire «echi di rituali vergognosi nella violenza con la quale si è indicato lo studioso alla pubblica esecrazione» [11].

Una nota della Stasi del novembre ’77 rivelava che l’organizzazione per la sicurezza e lo spionaggio della Germania Est ben conosceva De Felice. Non era passata inosservata una consulenza – svolta per il Tribunale internazionale sulla violazione dei diritti dell’uomo nell’URSS, voluto dal Premio Nobel per la Pace Andrej Sacharov – che aveva accusato la RDT di violazione dei diritti umani: «il breve rapporto della Stasi fa riferimento alle attività di De Felice nella “fase preparatoria”, dunque non pubblica, dei lavori» [12]. 

10 anni dopo furono due interviste [13] a scatenare il putiferio. Lo storico era incolpato di aver affermato che il sistema pregiudiziale di cui si nutriva il «quasi-established antifascism that had undergirded Italian political life since World War II» [14] stesse perdendo «significato e valore anche di fronte all’opinione pubblica». Era una verità scomoda ma sacrosanta, soprattutto negli ultimi anni della Prima Repubblica visto che «un discorso d’innovazione del sistema politico incontra naturalmente il problema del revisionismo storico: se si deve passare ad una nuova Repubblica, è ovvio che ci si debba liberare dei pregiudizi su cui è fondata la vecchia». Sappiamo bene com’è andata. E come sta andando.  

De Felice dovette convivere con questo clima ostile. Nel ’79 fu costretto a lasciare la Facoltà di Lettere trasferendosi a Scienze Politiche. Nel ’88 venne attaccato dalla rifondata Lotta Continua che propose la sua esclusione fisica dalla Sapienza. De Felice ricevette i contestatori e poi, senza paura, fece lezione. E che lezione! Come ricorda un suo allievo: «L’aula era strapiena e i primi banchi erano occupati da finti studenti vestiti con un improbabile e ormai desueto eskimo […] Ovviamente, nessun professore, tanto meno il preside della facoltà era venuto a portare un minimo di solidarietà al collega minacciato»[15]. 

Non era amato De Felice dai suoi colleghi. E di ciò poco pare gli importasse. L’erede della sua Cattedra, ricorda: «Robustello, appena claudicante, una lieve balbuzie a intopparne la naturale facondia, salace e burlone, nulla in lui del “barone” accademico: né sussiego, né spocchia, né seriosità […] Amava intrattenersi coi giovani leoni della facoltà che ambivano alla storiografia e alla carriera accademica, preferiti ai suoi colleghi […] Lui si rifugiava con noi in modeste pizzerie e trattorie cittadine, dove teneva banco gareggiando nel cibo ed altresì motteggiando» [16].

Anche a Paolo Mieli non sfuggì il suo insolito modo di intendere l’Accademia: «Al contrario di tutti o quasi i docenti che avevo incontrato, non aveva una “scuola” fatta unicamente di giovani che la pensavano come lui […] Per gli assistenti e per i collaboratori di un professore di sinistra, poteva al massimo variare la gamma dell’impegno in quella parte politica: si poteva essere comunisti ortodossi, psiuppini, extraparlamentari e via dicendo, ma sempre entro un certo ambito culturale. De Felice, no» [17]. 

Nel ’93 gli venne chiesto di curare l’edizione di un libro postumo: Alla guida del Clnai di Alfredo Pizzoni. Non era colpa di De Felice se l’autore suggeriva giudizi pesanti sulla «moralità della Resistenza, su Merzagora, peggio su Pertini» [18]. L’Einaudi, forte del finanziamento ricevuto dal Credito Italiano – di cui Pizzoni era stato dirigente –, stampò il libro ma non lo distribuì.

Nel febbraio ’96 due molotov furono lanciate contro il balcone della sua abitazione romana a Monteverde. Lo storico era in ospedale poiché già malato e aveva bisogno di cure. Una settimana prima il Collettivo studentesco di Scienze Politiche aveva distribuito un volantino contro il suo libro-intervista Rosso e nero definito «l’ultima pallottola sparata alle spalle della nostra memoria storica, un prolungamento delle torture che i comunisti e i partigiani subivano dai boia fascisti di via Tasso» [19]. 

A nessuno venne in mente di dare una scorta al più grande storico che avevamo. Il motivo di tanto odio lo espresse bene François Furet: «De Felice ha subito forti critiche da parte degli storici antifascisti perché non era comunista. E poiché l’antifascismo è stato manipolato dal movimento comunista per nascondere la natura totalitaria del regime sovietico, De Felice è stato perseguitato per aver osato alzare quel velo» [20]. E ci riuscì bene, animato da un «profondo spirito laico e terreno» che gli ha garantito «non solo l’autonomia storiografica della propria ricerca, ma anche l’onestà intellettuale e l’intransigenza morale necessarie per affermarla» [21].

Nemmeno la sua morte calmò il livore degli invidiosi: nel 2005 il Sindaco di Roma Walter Veltroni propose di intitolare una via alla sua memoria. Il Corriere della Sera lodò la proposta come «una sorta d’indennizzo morale rispetto alla lunga stagione di “linciaggio” da parte della sinistra». Pronta arrivò l’immancabile e piccata condanna di Tranfaglia che bollò come «favola» e «leggenda mediatica» l’elenco dei torti subìti da De Felice [22]. Ai limiti del paradosso, poi, la mistificazione di Gustavo Corni il quale fornì, nel 2011 [23], «come prova del legame di De Felice con i movimenti neofascisti, il fatto che il funerale dello storico aveva dato luogo a una manifestazione di giovani del Msi, con esibizione di saluti romani, gladi sguainati e gagliardetti» [24]. Peccato che ciò fosse accaduto durante le onoranze funebri di un altro storico epurato e perseguitato per decenni, Gioacchino Volpe.

Furono questi gli ennesimi attacchi, stavolta persino postumi, di quei «sacrestani della cultura» [25] accecati dall’acredine personale e dall’invidia accademico-scientifica i quali gli rimproveravano «di aver iniziato, con la sua biografia di Mussolini e con altri scritti, una revisione storiografica che, a loro avviso, si inserirebbe in una corrente internazionale di rivalutazione del fascismo e del nazismo. […] Ma questa affermazione è calunniosa. De Felice è un grande storico» [26]. 

Lo scrisse Leo Valiani, uno dei pochi a comprendere che lo storico, se vuole essere degno della benevolenza di Clio, «non ha il compito di infierire sui nemici del passato. Deve comprenderli». 

Note:

[1] Cfr., le lettere di Renzo De Felice a Delio Cantimori del 29 ottobre e del 17 novembre 1954, in Archivio della Scuola Normale Superiore di Pisa.

[2] Archivio Centrale dello Stato, Ministero degli Interni, Gabinetto, b. 356, fasc. 17031/69T, lettera del 1958 del capo della Polizia al Gabinetto del Ministro.

[3] R. De Felice, Intervista sul fascismo, a cura di M.A. Ledeen, Bari, Laterza, 1975, pp. 1-2.

[4] P. Simoncelli, Renzo De Felice. La formazione intellettuale, Firenze, Le Lettere, 2001, p. 16.

[5] R. De Felice, Introduzione a Id., Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Torino, Einaudi, 1961, pp. III-IV.

[6] Cfr., T. Munari (Ed.), I verbali del mercoledì. Riunioni editoriali Einaudi. 1953-1963, Torino, Einaudi, 2013.

[7] P. Simoncelli, Il caso. De Felice e i silenzi dell’Einaudi, in «Avvenire», del 5 dicembre 2013.

[8] G. Aliberti, Introduzione: la storiografia di Renzo De Felice, in Renzo De Felice. Il lavoro dello storico tra ricerca e didattica, Milano, Led, 1999, p. 17.

[9] “Certo che ricordo bene quella storia”- racconta Piero Melograni, in «Corriere della Sera», dell’8 febbraio 2005.

[10] G. Aliberti, Il riposo di Clio, Roma, e-doxa, 2005, p. 44.

[11] R. Romeo, No al linciaggio, in «Il Giornale», del 19 luglio 1975.

[12] P. Simoncelli, E la Stasi spiò De Felice, in «Avvenire», del 13 dicembre 2012.

[13] R. De Felice, Le norme contro il fascismo? Sono grottesche, aboliamole, in «Corriere della Sera», del 27 dicembre 1987 e Id., Renzo De Felice: “La costituzione non è certo il Colosseo”. Lo storico risponde alle polemiche sulla sua intervista, in «Corriere della Sera», del 7 gennaio 1988. 

[14] B.W. Painter Jr., Renzo De Felice and the Historiography of Italian Fascism, in «The American Historical Review», vol. 95, n. 2, aprile 1990, p. 391.

[15] G. Pansa, La grande bugia. Le sinistre italiane e il sangue dei vinti, Milano, Sperling&Kupfer, 2006, p. 407.  

[16] G. Aliberti, Il riposo di Clio, cit., p. 43.

[17] P. Mieli, Un docente negli anni della “contestazione”, in Renzo De Felice. Studi e testimonianze, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2002, p. 111.

[18] P. Simoncelli, De Felice-Saitta censurati dall’ideologia, in «Avvenire», del 22 maggio 2016. 

[19] Cfr., F. Peronaci, Due molotov, De Felice nel mirino, in «Corriere della Sera» e M. Lugli, Attentato alla casa di Renzo De Felice, in «Repubblica», entrambi del 16 febbraio 1996.

[20] F. Furet, De Felice perseguitato perché non comunista, in «Corriere della Sera», del 29 giugno 1996.

[21] G. Aliberti, Introduzione: la storiografia di Renzo De Felice, cit., p. 17.

[22] N. Tranfaglia, Il “Corriere” e la favola del “povero accademico”, in «l’Unità», del 12 novembre 2005.

[23] Cfr., G. Corni, Introduzione a Fascismo: condanne e revisioni, Roma, Salerno Editrice, 2011.

[24] E. Di Rienzo, Renzo De Felice: una vita difficile. Nel ventennale della scomparsa, in «Nuova Rivista Storica», vol. C, f. III, del settembre-dicembre 2016, p. 1035.

[25] G. Degli Esposti, I sacrestani della cultura, intervista a Renzo De Felice, in «La Nazione», del 22 febbraio 1976.

[26] L. Valiani, Non toccate De Felice!, in «Corriere della Sera», del 23 novembre 1992.

Roberto Bonuglia

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