L’intervista (di A. Di Mauro). Veneziani: “La scommessa del sovranismo è farsi cultura”

Marcello Veneziani

Nello scenario della contemporaneità – pressoché drammatico sia dal punto di vista politico-economico che da quello culturale ed esistenziale – la tentazione di farsi prendere dallo sconforto è sempre più incombente. Come spesso abbiamo scritto su queste pagine, viviamo l’epoca oscura caratterizzata dal dominio di un neoliberismo globalizzato che curiosamente si salta a una cultura di provenienza progressista orientata allo sconfinamento  alla liberazione da ogni vincolo religioso, tradizionale, culturale, identitario, territoriale e persino biologico.

Il risultato è uno tsunami che sta travolgendo tutto ciò che per millenni l’uomo ha percepito come reale: dal senso del limite e del sacro a quello della natura; dalla percezione della diversità alla necessità di un riferimento a una famiglia e una comunità di destino.

Si va, come dicono con tono entusiastico gli antropologi, verso la costruzione di un “sistema mondo” che mina alla radice l’equilibrio del pianeta e in cui l’unica realtà superstite è quella del mercato.

Insomma, il quadro è oggettivamente apocalittico. Ma abbandonarsi a un sentimento di nobile disperazione, potrebbe non essere così male. Ce lo spiega Marcello Veneziani nel suo “manuale di resistenza al declino” Dispera Bene, uscito alla fine del mese scorso in libreria.

 

Allora Veneziani, di fronte al Kali Yuga della nostra civiltà restare evolianamente in piedi in mezzo alle rovine non basta più? Occorre acquisire l’arte fruttifera della disperazione?

Sì, non basta restare in piedi tra le rovine e non basta considerare il mondo solo come un’età oscura. Si tratta, a mio parere, di lasciare alle spalle il catastrofismo e il conformismo, e a alle loro origini, il pessimismo e l’ottimismo, che non sono due visioni del mondo ma due difetti della vista, ci colorano tutto di nero o di rosa.

Occorre partire dalla disperazione che caratterizza la nostra condizione umana di morenti e la nostra percezione di declino dell’epoca e della nostra vita personale. La sfida, dunque, è quella di mettere a frutto la disperazione, considerandola non più un punto finale d’approdo ma, al contrario, un punto iniziale da cui ripartire.

 

Nella nostra epoca il marxiano rapporto tra struttura e sovrastruttura ha smesso di essere dialettico – come storicamente era sempre stato – e l’attuale sistema politico-economico-finanziario sembra quasi essere riuscito nell’impresa di elevarsi a indiscutibile stato di natura.

Sono stati i formidabili strumenti dell’ipertecnologia e dell’ipercomunicazione – dei quali mai nessun potere finora aveva potuto disporre – a rendere così penetranti i dogmi planetari del politicamente corretto?

La globalizzazione, come si sa, cammina su due gambe; il primato mondiale della tecnica e il primato mondiale della finanza. La comunicazione si situa a ridosso.

A proposito del sistema economico-politico-tecnologico non parlerei di stato di natura ma della sostituzione della natura con il diritto di mutare e del destino con la libertà assoluta e a senso unico. Quella che Jean-Paul Sartre chiamava “prigione senza muri”.

 

Sembra però d’intravedere una speranza: la nascita dei sovranismi può esserre interpretata come una positiva reazione naturale dei popoli a questo processo totalitario di omologazione cui sono sottoposti?

Sì, è una positiva reazione naturale, istintiva, emotiva. Il problema, e la scommessa più ardua, è rendere quella reazione naturale anche una visione culturale, una scelta deliberata, lucida, argomentata alla luce dell’esperienza, della storia e del pensiero. Vedo il sovranismo come un passo avanti rispetto al più generico populismo ma ancora acerbo come capacità di governo, di formazione di classi dirigenti, espressione di una cultura politica e non solo di momentanei stati d’animo.

 

Il conforto di una seppur fruttifera disperazione non rischia di tradirsi in una sorta di immobilismo politico e di rassegnazione ai processi nichilistici in atto di disgregazione della realtà? Esiste una possibilità di riattualizzare la lezione gentiliana che vede la politica – e più in generale l’azione e la prassi umana – capaci di incidere nella realtà?

Distinguo tra amor fati e fatalismo, cioé tra accettazione attiva della realtà e dei verdetti del destino e la rinuncia a priori a ogni sfida e a ogni impegno. Ci si può rassegnare agli esiti o accettare quel che siamo, ma non ci si può rassegnare a priori e abdicare a ogni nostra facoltà costruttiva. Ma sul piano politico ho smesso di nutrire aspettative, il fallimento assoluto di più esperienze di governo, l’incapacità di decidere e di rappresentare le comunità, di esprimere una visione e non solo di accettare gli umori, mi portano a non confidare più nella politica e a consigliare di sublimare le energie solitamente sprecate nella politica in ambiti più fruttuosi.

*Da Candido di febbraio 2020

Alessio Di Mauro*

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