Regionali/4. La sfida del centrodestra nell’Italia dei Cinquestelle evaporati

Matteo Salvini e Luigi Di Maio

Un notabile democristiano di Firenze, quando in Italia furono indette nel 1970 le prime elezioni regionali, affrontò la competizione con uno slogan destinato a rivelarsi un boomerang. Parlò di una “battaglia di Toscana”, da combattere per impedire che la Regione fosse governata da una maggioranza a guida comunista. Quando fu sconfitto, com’era inevitabile, vista la logica delle cifre e la vischiosità dell’elettorato nella prima repubblica, il suo leader di riferimento nazionale, Amintore Fanfani, anche lui toscano, gli fece garbatamente notare che, nella vita politica come in quella militare, gli scontri prima si vincono, poi si definiscono battaglie; in questo modo si è sempre in tempo per declassarle a mere scaramucce o a ritirate strategiche. 

Pur tenendo conto dei profondi mutamenti intercorsi nell’arco di mezzo secolo, il grande errore che si può imputare a Salvini (e non solo a lui) è proprio questo: avere attribuito un ruolo di vera e propria ordalia a un confronto elettorale perduto in partenza. Se così non fosse stato, se il voto in Emilia-Romagna non fosse stato presentato come un giudizio di Dio destinato a mandare a casa il governo Conte, oggi il centrodestra potrebbe festeggiare il fatto di avere strappato alla coalizione di sinistra una Regione, la Calabria, con una maggioranza schiacciante, e di avere ottenuto risultati apprezzabili in una terra, l’Emilia-Romagna, in cui esiste un consolidato sistema di potere rosso. Invece la sconfitta in una regione ha lasciato in ombra il successo, tutt’altro che di misura, nell’altra, e viene presentato come un fattore di stabilità per il Conte bis. D’altra parte, aver sostenuto che, in caso di vittoria del centro-destra in Emilia, il presidente della Repubblica avrebbe dovuto indire nuove elezioni significa implicitamente ammettere che, visto che a vincere è stato il centro-sinistra, il governo è legittimato ad andare avanti.

Tutto questo non vuol dire, però, che non sussistano motivi di preoccupazione per l’area di centro-destra. Il più evidente è di natura interna. Il calo della popolarità di Salvini, già  incrinata dall’uscita dal governo, non può non nuocere al successo della coalizione nel caso di elezioni più o meno anticipate. Né basta consolarsi con il successo di Fratelli d’Italia, perché in una dialettica politica personalizzata l’esigenza di una leadership autorevole è indiscutibile. Salvini si è speso generosamente in questa campagna elettorale, ma ha commesso alcuni errori di indole psicologica che, insieme alla debolezza della candidata alla presidenza, sono stati determinanti. Ha sottovalutato il rischio di una sovraesposizione mediatica e non ha tenuto conto del fatto, per esempio, che agli abitanti di una cittadina come Bibbiano essere identificati con il simbolo di abusi sui bambini ha suscitato una reazione di rigetto ingiusta, forse, ma comprensibile.

I più seri motivi di preoccupazione per il centro-destra sono però di natura esterna. È onesto riconoscere che, per quanto sgradevoli possano essere stati molti aspetti della loro politica, i penta stellati hanno svolto una funzione positiva, per certi aspetti provvidenziale, nella politica italiana, erodendo l’elettorato di sinistra. Senza la loro concorrenza, il Pd avrebbe conquistato una maggioranza schiacciante nel 2013, e avrebbe tra l’altro approvato la legge sullo jus soli, ponendo le premesse per una sostituzione etnica dell’elettorato. Nelle politiche del 2018 il successo “grillino” ha danneggiato anche il centro-destra, anche per gli errori di Berlusconi, che ha pensato di poterli demonizzare come aveva fatto, nel 1994, con i “comunisti”. A danneggiare la sinistra sono stati anche la parabola del renzismo e le diatribe interne, che hanno favorito la crescita dell’astensionismo: astensionismo che in un passato ormai remoto penalizzava soprattutto i moderati, mentre nel passato prossimo ha penalizzato il Pd.

Nelle elezioni emiliane l’astensionismo è rientrato, tanto che i risultati risultavano deducibili, già prima degli exit poll, dall’aumento del numero dei votanti proprio nelle roccheforti della sinistra. Ma soprattutto l’elettorato penta stellato si è sì disgregato, ma buona parte di esso si è indirizzato verso il Pd. Come è stato rilevato da autorevoli commentatori, si prospetta un ritorno al bipolarismo, paradossalmente proprio quando l’odierna maggioranza di governo sta promuovendo un ritorno al proporzionale, corretto tutt’al più da una soglia di sbarramento.

Se poi si cerca di guardare al futuro in un contesto dinamico, esaminando quelli che potrebbero essere gli orientamenti dei nuovi elettori, emerge un nuovo motivo di preoccupazione per il centro-destra, forse il più serio. La gigantesca opera di pedagogia sociale (per non parlare di indottrinamento ideologico) compiuta dalla sinistra nei confronti delle giovani generazioni comincia a dare i suoi frutti. E, spiace dirlo, comincia a darli spesso nei confronti dei giovani più diligenti, più scrupolosi, quindi più inclini a prendere per oro colato quanto proviene dalla bocca dell’insegnante o dalle fonti ufficiali. La rilettura ideologica del nostro passato, fatta di enfatizzazioni o di colossali rimozioni (basti pensare all’abbandono o peggio al fraintendimento in cui rischia di cadere il Giorno del Ricordo), comincia a fare breccia. Il centro-destra – e a questo riguardo è difficile non condividere le analisi di Grandi – non si è mai posto il problema di promuovere non solo una seria ricerca storiografica, ma anche un’opera di onesta divulgazione attraverso, per esempio, la cosiddetta fiction. Non è cambiato molto, anche con un presidente “sovranista”, nei programmi storici e negli sceneggiati televisivi della Rai. Basti pensare all’agiografia laica sulla figura di Nilde Jotti, in cui è stato taciuto il dramma dell’aborto impostole ma anche l’abbraccio a donna Assunta ai funerali di Almirante.

Non è da escludere che l’estensione del voto ai “nuovi italiani” e soprattutto lo spostamento a sinistra del voto giovanile, accentuato dall’assurdo allargamento ai diciottenni dell’elettorato passivo al Senato, con buona pace dell’etimologia e della logica del bicameralismo, possano rendere tutt’altro che scontato il risultato di future elezioni politiche. Di fronte a una sinistra unita, dai centri sociali ai grandi centri di potere economico, un centro-destra con la leadership di Salvini appannata potrebbe trovarsi in seria difficoltà. A questo proposito è lecito se il ritorno al proporzionale, paradossalmente, non possa favorire il centro-destra. Non sarebbe la prima volta in cui una legge elettorale pensata per danneggiare gli avversari si ritorce contro chi l’ha imposta.

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Enrico Nistri

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