Focus Berlino 1989. Dal muro al tentativo di egemonia che arriva dalla Muraglia cinese

La grande muraglia cinese

Con il 1989, e ancor più con il 1991, la Guerra Fredda è finita. Questo è un fatto acclarato. Resta assai meno certo cosa ne sia seguito dopo. Incertezza tale per cui molti studiosi hanno preferito limitarsi a denominare il periodo successivo come “post-Guerra Fredda”, semplicemente. Certo è che un ordine politico internazionale si disfece, e che per tre decenni se n’è cercato un altro. Invano?

Ricordiamo solo che durante gli anni ’90 si sono registrate 57 guerre in 45 Paesi, in massima parte deflagrazioni civili combattute per il controllo del governo o del territorio. Alcune indagini riportano dati sconvolgenti sulle vittime principali di questi conflitti: circa 2 milioni di bambini morti dal ’90 al 2000. A ciò si aggiungano i danni ambientali, economici, sociali, spesso cause di sottosviluppo di interi continenti e di esodi biblici, con milioni e milioni di profughi e rifugiati. Come sappiamo, il primo ventennio del nuovo secolo non ha visto affatto migliorare la situazione, semmai aggravarsi per le guerre in Afghanistan e Iraq, il diffondersi dell’Isis tra 2014 e 2017, per non parlare della Siria dal 2011 nonché del fenomeno che, in questo stesso ultimo ventennio, ha portato violenze e stragi nel cuore dell’Occidente, ossia il terrorismo internazionale di matrice islamista. Insomma il mondo si è, sì, globalizzato, ma non nel senso di una maggiore stabilizzazione. Semmai abbiamo assistito al crescere degli squilibri e ad una politica estera statunitense in sostanziale confusione da post-Guerra Fredda, nel senso di un crescente idealismo che, volendo anche generosamente “esportare democrazia”, ha finito per alimentare disordine. D’altro canto, non è che il sistema internazionale della Guerra Fredda avesse evitato conflitti anche violentissimi, ma l’ordine liberale in Occidente, soprattutto in Europa, aveva – e ha – senz’altro portato il periodo di pace più duraturo della nostra storia.

In ogni caso, nello scenario post-1989 la Russia, dopo un decennio, ha ripreso faticosamente ma decisamente a riacquistare un peso specifico come potenza economica e soprattutto militare e a ritagliarsi un ruolo geopolitico sempre più egemonico nell’area caucasica e medio-orientale, in sintonia con l’ascesa in Turchia di Erdogan e del suo progetto neo-sultanico. E poi c’è l’immenso, imponente convitato di pietra dello scacchiere internazionale: la Cina.

Per restare al panorama culturale italiano, proprio in queste ultime settimane sono usciti in libreria due libri di autorevoli giornalisti che, sin dal titolo, affermano in modo perentorio che siamo entrati in una seconda Guerra Fredda. Proprio così si intitola il nuovo saggio di Federico Rampini, La seconda guerra fredda (Mondadori, 2019), mentre l’ultima fatica di Maurizio Molinari, Assedio all’Occidente. (La Nave di Teseo, 2019), reca nel sottotitolo analogo riferimento: Leader, strategie e pericoli della seconda guerra fredda. Nel sottotitolo dato al suo contributo Rampini rompe addirittura ogni indugio e parla apertamente di uno scontro per il nuovo dominio globale. Scontro che prefigura soprattutto per l’Europa un rischio fortissimo di schiacciamento. Su questo attacco non usa mezzi termini Molinari, il quale pone sullo stesso piano la minaccia russa e quella cinese. Entrambe le potenze, «pur muovendo da premesse differenti, convergono nel voler trasformare l’Europa in un terreno di conquiste, politiche ed economiche, al fine di far implodere Nato e Ue, allontanando quanto più possibile gli Stati Uniti dai loro tradizionali alleati sul Vecchio Continente». Si tratta, più precisamente, di «un’offensiva che nasce dalla comune convinzione che, rescindendo il legame euroatlantico, l’Occidente come entità strategica avrà fine, consentendo ai suoi maggiori rivali di rafforzarsi, potendo di conseguenza inseguire gli obiettivi più ambiziosi».

Cosa accomuna seconda e prima Guerra Fredda? Il fatto che, prosegue Molinari, «chi aggredisce le democrazie punta a farle crollare dall’interno, esaltandone in ogni modo le debolezze economiche e le divisioni sociali. […] In tale cornice, l’Italia assume un rilievo strategico di tutto rispetto per tre motivi convergenti», che sono la collocazione geografica (di confine tra Europa ed Oriente), la sede del pontificato cattolico (con Putin che mira a presentarsi come baluardo di una cristianità non più adeguatamente difesa da Roma) e, infine, la presenza di un soggetto politico, il Movimento 5 Stelle, imprevedibile e dimostratosi fin qui estremamente disponibile a flirtare con potenze anti-occidentali (come dimostrano gli intensi rapporti con le autorità politiche cinesi e il silenzio sulle proteste ad Hong Kong).

 

Quello che oggi appare conclamato per gli osservatori più attenti aveva cominciato a fare capolino sin dall’anno in cui si celebrava la “fine della Storia” (anche se Fukuyama metteva comunque in guardia su possibili sorprese). Nel 1992 il PIL della Cina già cresceva con un tasso del 14,216%. Nello stesso anno gli Usa erano a meno del 4%. Con un andamento parabolico nel quindicennio successivo (con il punto più basso toccato nel 1999, ma un tasso comunque di poco inferiore all’8%), la Cina raggiungeva nuovamente il 14,231% nel 2007, assestandosi in questi ultimissimi anni attorno al 7% (gli Usa nel 2018 erano sotto il 4%). Un dato di costante crescita è stato quello delle spese militari, ininterrotto dal 1989 e impennatosi dal 2005. Su questo aspetto il divario è ancora enorme rispetto agli Stati Uniti, ma è inequivocabile segnale di un disegno neo-imperiale cinese.

Con la crisi economica del 2007-2008 si è dunque palesata la presenza di due potenze “revisioniste” di quel sistema internazionale tendenzialmente unipolare determinatosi con l’inopinato crollo dell’impero sovietico. Secondo Rampini è la Cina a dover far più paura della Russia. Per tutta una serie di ragioni, la più evidente delle quali è data dalle dimensioni e dalle immense risorse, di ogni tipo, di cui può disporre. Quel che poi le manca ha pensato bene di procurarselo altrove, con forme di neocolonialismo che nulla hanno da invidiare ai precedenti modelli otto-novecenteschi. E non da ora. Già nel 2007 al quotidiano inglese “The Guardian” Guy Scott, l’ex ministro dell’agricoltura del governo dello Zambia, ebbe a dichiarare: «Le persone qui ora dicono: ne abbiamo viste di cattive persone. I bianchi erano cattivi, gli indiani erano ancora peggio, ma i cinesi sono i peggiori di tutti». L’imperialismo di Xi Jinping è palese ed ecco che Hong Kong diventa una carta da giocare per gli Stati Uniti, i quali stanno trattando con il rivale cinese intese commerciali che mirano tanto a contenerne l’espansione economica, in modo che non si tramuti in espansionismo geopolitico, quanto a ridare certezze al commercio americano in previsione delle elezioni presidenziali del prossimo anno. È la cosiddetta “trade war” che s’interseca con i destini di Hong Kong.

 

D’altro canto, come riportato pochi giorni fa da “MF Milano Finanza”, Anthony Chan, Chief Asia Investment Strategist di Union Bancaire Privée (UBP), si è detto convinto che «Hong Kong, dazi e proteste possono avere effetti più gravi sull’economia dell’epidemia di Sars e di piazza Tienanmen». L’economia mondiale, ma anzitutto quella cinese e dell’area asiatica. Come ben evidenziato da Alessandra Bocchi su “Atlantico Quotidiano”, «Pechino spesso usa il proprio commercio come arma politica. La condizione di non interferire nei suoi affari si può tradurre in una proibizione alla semplice critica verso tutto quello che riguarda la Cina. Il PCC ricatta chiunque dipenda dal commercio o dagli investimenti cinesi all’estero vietandogli accesso ai suoi mercati se vengono messi in discussione temi che riguardano la sua sovranità». Lo conferma il caso recentissimo della videoconferenza in Senato di Joshua Wong, uno dei leader riconosciuti del movimento pro-democrazia di Hong Kong, con le reazioni molto accese dell’ambasciata della Repubblica popolare cinese in Italia. Contro l’iniziativa di alcuni parlamentari italiani l’ambasciatore ha ribadito fermamente che «gli affari di Hong Kong appartengono alla politica interna della Cina e nessun Paese, organizzazione o singolo ha alcun diritto di interferirvi. Speriamo – conclude la nota – che le persone coinvolte rispettino la sovranità cinese e si impegnino in azioni che aiutino l’amicizia e la cooperazione tra Italia e Cina e non il contrario».

Gli accordi commerciali sono dunque un viatico per esercitare una crescente influenza politica e creare una cortina di omertà con i crimini che continuano ad essere commessi in Cina. Poche settimane fa il governo cinese ha boicottato alcune compagnie americane per avere espresso solidarietà ai manifestanti pro-democrazia di Hong Kong. La banca cinese Shangai Pudong ha tolo la propria sponsorizzazione agli Houston Rockets, importante squadra del basket americano, dopo che il loro manager aveva twittato a favore delle proteste degli studenti di Hong Kong. Non solo: tutti i media cinesi hanno censurato le partite della NBA. Com’è finita? Il giorno dopo il manager americano si è scusato pubblicamente, ha cancellato il suo tweet e così i finanziamenti miliardari sono rientrati. E stiamo parlando di un’ingerenza per questioni solo (apparentemente) sportive.

Sempre di questi giorni sono le rivelazioni di alcuni documenti segreti del Partito Comunista Cinese ad opera dell’International Consortium of Investigative Journalists (Icij). Da queste carte emerge il sistema di repressione messo in piedi da Pechino nello Xinjiang, regione autonoma a maggioranza uigura e musulmana. Ufficialmente si perseguono i radicalismi religiosi, nella realtà si mette in atto una sistematica azione di repressione per assoggettare politicamente una vasta area di potenziale dissenso al regime di Pechino. Secondo i documenti rivelati, nello Xinjiang meridionale si sono registrati qualcosa come 15mila internati in una sola settimana nel corso del 2017. Le fonti più accreditate parlano di circa un migliaio di campi in tutta la regione autonoma, in cui sarebbero rinchiusi da 1 a 1,8 milioni di persone, in gran parte uiguri e membri di altre minoranze. Le carte segrete del PCC ora lo confermerebbero. Gli internati, chiamati “studenti” per mistificare la realtà, vengono controllati in ogni loro minimo movimento, videosorvegliati giorno e notte. Figli all’estero per studio si ritrovano spesso, al rientro, genitori internati in questi campi. Dovranno dimostrare lealtà, se li vogliono rivedere. Quanto accadde con i giovani che andarono a studiare in America negli anni Ottanta non deve ripetersi. Tieni a mente Tien An Men.

Se il ventunesimo sarà il secolo cinese o resterà, come il ventesimo, americano, non è dato sapere. Rampini lo chiarisce, mettendoci in guardia. Ci mostra punto per punto quanto la Cina stia agendo per assurgere ad impero egemonico, ma nessuno può prevedere il futuro. Tanto la Repubblica popolare cinese quanto gli Stati Uniti stanno mettendo in moto «forze che loro stessi non sapranno dominare fino in fondo. È un mondo nuovo, che in poco tempo sta cancellando le regole fissate nell’epoca precedente. Abbiamo bisogno di capirlo, è una questione di sopravvivenza». A questo serve la lettura di entrambi i libri e, più in generale, una formazione adeguata e costante di nuove generazioni di classi dirigenti europee. Serve anche perché «questo paese si è chiuso all’informazione, ha eretto barriere più alte che ostacolano la circolazione di notizie e di idee nei due sensi». Ad esempio, loro hanno Weixin al posto del nostro WhatsApp, là vietato. Amazon chiude in Cina perché c’è Alibaba. E così via. Una modernizzazione tecnologica che avanza a passi da gigante si abbina al nazionalismo confuciano. Là moltissimo si muove e la Grande Muraglia totalitaria c’impedisce la vista. E non vedere per tempo aumenta il rischio di brutte sorprese.

C’è una speranza: che la Cina non si risolva tutta in Pechino, da cui Rampini osserva e ci riferisce. Potrebbero esserci crepe nella Muraglia che non sappiamo, dato che, come scrive lo stesso giornalista di “Repubblica”, «un terzo del territorio cinese è off-limits per molti di noi» e perché vige un Grande Fratello «come nessun paese occidentale può neppure sognarselo; ben più avanzato anche rispetto ad altri regimi autoritari o democrature come Russia, Iran, Turchia». Sempre meno visti vengono rilasciati a giornalisti e sinologi non cinesi, specie se occidentali. Insomma, occorre sempre più che dalle nostre parti si legga, si studi per capire e non fare la fine del topo nelle grinfie del gatto cinese. E chissà che nella Muraglia non vi siano crepe o pertugi scavati nel frattempo dalla talpa della Storia. Un pur cauto e realistico sospetto sulle “magnifiche sorti e progressive” cinesi, anche questo dovrebbe insegnarci il trentennale della caduta del Muro.
(fine terza parte di 1989-2019: il liberalismo dal trionfo al tonfo)

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Danilo Breschi

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