L’intervista (di A. Di Mauro). Sansoni: “Riprendersi la cultura per riportare il primato alla politica”

Su queste pagine abbiamo affrontato spesso il tema della grave crisi che l’arte, ma più in generale la cultura, stanno attraversando in quest’epoca postmoderna in cui l’unico valore che esiste e che resiste è quello del mercato dominato dalle elites del potere economico-finanziario.

Il dato sorprendente è che su tali posizioni critiche convergano non soltanto pensatori apertamente ostili al paradigma neo-liberista globalizzato – come il giovane filosofo Diego Fusaro, non a caso molto apprezzato in ambienti sovranisti – ma persino intellettuali di formazione liberale. Un esempio significativo in questo senso è quello del premio Nobel per la letteratura Mario Vargas Llosa che, in un saggio di qualche anno fa, si spingeva a considerare la cultura sul punto di scomparire, o forse persino già scomparsa.

Secondo lo scrittore peruviano, infatti, la sostituzione del concetto di prezzo a quello di valore e l’imposizione delle leggi dell’intrattenimento al posto della consuetudine plurisecolare al godimento estetico e intellettuale (oltre a una serie di altre dinamiche collegate) avrebbero prodotto la degenerazione della cultura in spettacolo e intrattenimento, con gli esiti di disumanizzazione e perdita di senso che negli ultimi decenni stiamo vivendo.

Uno scenario apocalittico reso ancora più fosco dalle previsioni dei detrattori più radicali della globalizzazione, i quali sostengono che se nei prossimi decenni epocali non si verificheranno avvenimenti in controtendenza, non solo il destino della cultura, ma persino gli equilibri geopolitici e ambientali dell’intero pianeta appaiono irrimediabilmente segnati.

Ne discutiamo con chi si sta spendendo in prima persona per il recupero del valore della cultura nel nostro Paese, come il giornalista Alessandro Sansoni, direttore responsabile del neonato mensile Cultura-Identità (distribuito in allegato con il Giornale), del quale ci siamo occupati già in passato.

 

Allora direttore, sappiamo che la vostra non è solo una rivista ma un tentativo di mettere insieme il meglio della cultura non conformista che non si arrende al deserto che avanza. 

Siamo già in condizione di fare un primo piccolo bilancio di questo coraggioso progetto? Avete registrato segnali incoraggianti?

 

Io dico di sì. Abbiamo immediatamente riscontrato grande interesse sia negli ambienti culturali che in quelli politici e mediatici. Abbiamo anche qualche dato un po’ più specifico: a giugno infatti siamo andati per la prima volta autonomamente in edicola con un prezzo di copertina, dunque non più solo in allegato con il Giornale. Ebbene, la risposta è stata molto confortante: parliamo di 15 mila copie vendute.

Un dato che, in un momento così difficile per l’editoria cartacea, fa di Cultura-Identità quasi un caso editoriale.

Significa che in qualche modo abbiamo dato risposta a un bisogno diffuso nel Paese. Troppo spesso, infatti, il mondo dell’industria editoriale dimentica che se il 50 per cento degli italiani è disposto a dare fiducia politica a quei partiti della cosiddetta area sovranista che contestano un certo filone culturale, vuol dire che esiste un mercato piuttosto ampio.

 

C’è però quell’antipatico luogo comune secondo il quale a Destra si leggerebbe poco…

È vero. Ma bisogna anche dire che l’elettore di Destra probabilmente legge meno perché spesso non trova prodotti editoriali che incontrino la propria sensibilità politico-culturale. Oppure, quando ci sono, spesso non riescono a interpretare quelle idee in una forma spendibile per un confronto alla pari con il mondo accademico e della cultura alta in generale.

Proprio questo è uno degli obiettivi che noi abbiamo, come ho scritto nell’editoriale del primo numero: dare voce a un’Italia profonda che non ha mai avuto accesso ai salotti buoni del mainstream.

 

La differenza essenziale tra la cultura del passato e l’intrattenimento attuale – secondo il già citato Vargas Llosa – è che la prima si proponeva di trascendere il tempo presente per continuare a vivere nelle generazioni future, mentre “la civiltà dello spettacolo”, per dirla col titolo del suo saggio, produce contenuti nati per essere consumati nell’immediato e destinati poi a sparire. Proprio come le merci di consumo. Come i biscotti e i popcorn. Sei d’accordo con questa visione?

 

Assolutamente sì. Siamo di fronte a un processo di mercificazione della produzione culturale che è sotto gli occhi di tutti. E sono gli effetti di tale processo a determinare il fenomeno cui si riferisce lo scrittore peruviano: oggi la cultura, essendo ormai strettamente collegata al progresso della tecnica e alla globalizzazione economica, ha la necessità di un’alta standardizzazione per fare in modo che lo stesso prodotto –culturale in questo caso, ma vale lo stesso discorso per ogni tipo di merce – vada bene ad ogni latitudine. E siccome l’economia della globalizzazione non può che essere un’economia “usa e getta” (perché fondata sulla continua necessità di creare nuovi bisogni per stimolare nuovi consumi) anche la cultura diventa tale. I suoi prodotti sono dunque pensati per divertire hic et nunc e per essere poi velocemente sostituiti da altri contenuti simili – sempre altamente standardizzati – che soddisfino il bisogno di novità.

 

Un meccanismo devastante alimentato dalle dinamiche compulsive del web e dei social…

 

Esattamente. E se ci pensiamo attentamente è persino paradossale che la distruzione della cultura passi anche attreverso la rete. Perché quello del web è un mondo iper-culturale fatto di segni, simboli, immagini e parola scritta. Noi oggi, attraverso internet, abbiamo una sovrabbondanza di produzione culturale, ma tutta standardizzata. È un po’ quello che avviene nei mercati finanziari dove c’è l’economia reale che vale un nono rispetto a un’economia finanziaria la quale, però, è di fatto carta straccia. Proprio come la cultura che naviga sul web. Ciò che è venuto a mancare, per completare la risposta alla tua domanda precedente, è più o meno quello di cui parla Vargas Llosa. E cioè la produzione di un orizzonte di senso.

Una perdita esiziale se pensiamo che il fine ultimo della cultura dovrebbe essere proprio quello di fornire un senso a una precisa comunità che abita in un certo territorio, in un certo momento storico.

Quell’orizzonte di senso sarebbe poi destinato a diventare parte di una tradizione capace di proiettarlo nel futuro, agganciandolo al filo della continuità identitaria di un popolo.

 

 

Hai fatto riferimento all’elemento identitario e ci viene in mente una massima di un’importante critica d’arte come Angela Vettese, la quale – pur essendo ben lontana come Vargas Llosa da tentazioni sovraniste – ammette che una società in crisi d’identità come la nostra può produrre al massimo del bricolage e non sarebbe mai in grado di concepire il Partenone.

Sembra una palla alzata a chi, come voi ripropone con forza il binomio Cultura-Identità. È dunque proprio dal recupero dell’identità smarrita nello tsunami postmodernista, che si deve ripartire?

 

Non c’è altra strada. Del resto la polarizzazione, ossia la necessità di mettersi attorno a un totem alla ricerca di una radice comune, è un’esigenza innata nel genere umano. Lo vediamo persino sul web, dove il tasso di standardizzazione è altissimo. In realtà, se noi andiamo a studiarci le dinamiche dei social, scopriamo che anche in quel mondo si tende alla polarizzazione.

Il problema è che quando questi processi di aggregazione identitaria si innescano nel mondo virtuale, gli elementi che li caratterizzano sono sempre la fragilità, la banalità e una certa carica distruttiva anziché costruttiva.

 

 

La sensazione, però, è che qualsiasi prospettiva di uscita dall’impasse in cui ci siamo cacciati non possa prescindere dalla messa in discussione complessiva del sistema di potere finanziario globalizzato che ha finito per sopprirmere quasi ogni libera espressione di pensiero critico e creatività.

In altri termini, ti pare possibile porre un freno alla deriva culturale dell’Occidente restando all’interno dell’attuale modello di sviluppo?

Non c’è dubbio che il nostro modello complessivo di società sia strettamente collegato a quello smantellamento della cultura di cui stiamo parlando. Dunque la discussione non può che essere complessiva. I modelli di civiltà finiscono quando hanno raggiunto una saturazione nelle possibilità di sviluppo e di autoaffermazione ed è evidente che la nostra civiltà sta vivendo un momento di crisi profonda che vediamo riflessa nelle dinamiche ecologiche ed economico-sociali. Qualcosa inevitabilmente cambierà.

Il punto però non è – come vorrebbe ad esempio un approccio marxista, già superato dalla storia – distruggere la dinamica di mercato che è sempre esistita in tutte le civiltà più virtuose. La sfida, piuttosto, è rimetterla al servizio della comunità e promuovere contestualmente un ritorno al primato della elaborazione dei contenuti culturali, oltre che delle forme estetiche. Che poi altro non sarebbe che un ritorno al primato della politica. ll problema infatti sta tutto qui: gli uomini oggi sono prigionieri di un ingranaggio finanziario e tecnocratico che li sovrasta e i luoghi dove avviene la decisione non sono raggiungibili (spesso non sono neppure percettibili) dal cittadino comune.

Riportare la politica al centro significherebbe spezzare quelle catene e tornare protagonisti della propria cultura, dunque della propria storia e del proprio destino.

*Da Candido di Agosto 2019

Alessio Di Mauro*

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