Cultura. “Cuore ribelle” di Dominique Venner: la via senza ritorno di un samurai d’occidente 

Dominique Venner e Yukio Mishima
Dominique Venner e Yukio Mishima

Va senz’altro ascritto a merito di Gaetano Marabello l’aver curato e tradotto per la prima volta in italiano per le edizioni di Controcorrente, Cuore ribelle, l’autobiografia dello storico francese Dominique Venner, uscita nel 1994 e giunta in Francia alla terza edizione. Com’è noto, Dominique Venner pose fine alla sua vita il pomeriggio del 21 maggio 2013 con un colpo di pistola che rimbombò sotto le volte della splendida cattedrale di Notre Dame. Nel saggio introduttivo al testo italiano, intitolato significativamente Un fiore di ciliegio a Notre Dame,  Marabello si sofferma su questo gesto estremo con cui lo storico francese intese protestare contro la decadenza dell’Europa, per “scuotere le coscienze intorpidite degli europei e incoraggiarli a reagire”. Il curatore e traduttore respinge a questo proposito la duplice accusa mossa a Venner, quella di aver profanato un luogo sacro e quella di illudersi così di aver cambiato qualcosa. Quanto alla prima, il valore simbolico del luogo scelto è indiscutibile, si trattava di riannodarsi alle radici della civiltà europea a partire dai Celti che proprio lì avevano un loro santuario. Quanto alla seconda più insidiosa accusa, va senz’altro escluso che Venner fosse uno sprovveduto e le ragioni del gesto vanno ricercate piuttosto nella sua visione della storia. Traendo spunto dall’inatteso crollo del comunismo nel 1989 Venner stesso scrive nella sua autobiografia che “l’inatteso è la regola della storia”. Gli eventi storici testimoniano infatti “contro la disperazione e l’ineluttabile. La storia cammina a nostra insaputa. Porta in sé l’imprevedibile. Ciò che sembra più solido subisce la legge universale dell’usura. I draghi sono vulnerabili e mortali. Non c’è fatalità che nello spirito dell’uomo.” Per questo “occorre battersi e lavorare sempre per assicurare l’opera dei padri o riparare alle loro colpe.” In quest’ottica si giustifica il suicidio di Venner. Esso ricorda l’etica dei samurai e, non a caso, il testo è preceduto da un magnifico haiku del poeta giapponese Buson, che Marabello ha voluto come esergo in omaggio alla figura di questo “samurai d’occidente”: “cadono i fiori di ciliegio sugli specchi d’acqua della risaia: stelle, al chiaror d’una notte senza luna.” 

Cuore ribelli di Dominique Venner

Cuore ribelle muove dalla guerra d’Algeria, che iniziò con la strage d’Ognissanti del 1954 e terminò con la capitolazione della Francia, battuta non certo da forze soverchianti, ma da sé stessa, per un venir meno delle sue energie spirituali, per  un diffuso senso di colpa nell’opinione pubblica dominante, per l’indifferenza della borghesia benpensante e per i calcoli dei politici. “Io lo dico con dolore, questa guerra perduta fu una disfatta meritata”. Questa esperienza segnò profondamente la vita di Venner, che già tre anni prima si era arruolato per sfuggire alla noia della scuola e della famiglia ed appena ventenne si trovava già al comando di un reparto: “A vent’anni l’avventura della guerra e delle congiure fu offerta a quelli di una generazione che la vollero. Pochi vi erano preparati. Rari furono quelli che riuscirono a cambiare questa occasione in destino. Noi avevamo gustato allora qualcosa che rende tutto il resto insipido.” Venner ricostruisce sapientemente, in modo concitato, avvincente, una pagina di storia, che è una ferita non del tutto rimarginata per la Francia. Se la guerra d’Algeria offrì ad alcuni giovani l’occasione di guardare in faccia la morte, di sperimentare il volto virile dell’esistenza, di vivere l’avventura e forgiarsi un carattere, d’altro canto essa fu anche “prova fondatrice per una parte degli Algerini, dramma spaventoso per i piedi neri (francesi d’Algeria, ndt), guerra civile implacabile tra mussulmani  partigiani o avversari della Francia. Ma al cospetto della storia, quando il momento sarà giunto, essa apparirà soprattutto come un combattimento perduto dall’Europa di fronte all’Africa per la difesa della sua frontiera del Sud.” 

Il racconto prosegue con la rievocazione dell’azione politica romanticamente vissuta in alcuni gruppi d’estrema destra, il carcere, le amicizie, le letture formative negli anni ’60 fino all’emergere della sua vera vocazione, quella degli studi storici cui dedicherà il resto della sua vita. Non c’è, dunque, nella vita di Venner una soluzione di continuità, dall’azione alla contemplazione, bensì una necessità interiore, un bisogno di preservare la sua libertà, di non “alterare quel che possedevo di mio”, e divenire infine “una sentinella solitaria posta alle frontiere della speranza e del tempo.” “Je ne regrette rien”, io non rinnego nulla, dice orgogliosamente lo storico francese. Ma la vita va avanti, non indietro e così scopre che quel giovane, che è stato, gli è divenuto parzialmente estraneo: “la sua temerarietà mi sorprende, il suo gusto per la violenza mi stupisce”. Anche il suo giudizio sulla guerra d’Algeria, nel corso degli anni, si è parzialmente modificato. Se è vero che “in Algeria, non combattevamo per delle astrazioni ideologiche, né per il rispetto di alleanze discutibili, né per una Polonia che non  fu difesa. In Algeria combattevamo per noi stessi, per il nostro diritto ad un destino, per la nostra dignità. Combattevamo per difendere, su questa terra, le nostre culle e i nostri cimiteri. Combattevamo per proteggere i nostri in pericolo.” D’altra parte, scrive lo storico francese, “oggi, io riconosco che la ribellione combatteva ugualmente per una giusta causa, la sua, cosa che avevo la tendenza a  negare all’epoca. Il nemico, così debole all’inizio, voleva cacciarci da una terra che rivendicava per sé solo, per diritto di anteriorità. Anch’esso combatteva per la sua dignità. Combatteva per conquistare una patria, per darsi un’identità, per edificare una nazione. Poiché le due cause erano giuste e di un antagonismo assoluto, non c’era tra loro né mezzo termine né negoziazione possibile. Solo la guerra poteva dirimerle.” Certo, conclude Venner,  “c’è voluto molto tempo per digerire le passioni, gli affronti, i massacri, tutto questo odio rovesciato sui nostri. C’è voluto tempo per attingere ad una veduta allargata e placata, per arrivare a questa idea nuova che, affermando l’identità del mio popolo, io difendo quella di tutti i popoli”. Non mancano nel racconto alcuni gustosi flashback sulla fanciullezza e sulla figura della nonna, “che nella sua gioventù si divertiva a far girare le teste e i cuori”. Né mancano riflessioni sull’impegno dello scrittore con un sentito tributo alla figura di Drieu La Rochelle (“In lui si pone l’enigma dell’impegno, sentito come una necessità esistenziale… quando la storia sembra offrire l’occasione di trasformare i loro sogni in azione”), sui moti del ’68,  sull’importanza della Tradizione. Riportiamo le parole conclusive di questo magnifico libro: “La tradizione è una scelta, un mormorio dei tempi antichi e del futuro. Essa mi dice chi io sono. Essa mi dice che io sono di qualche parte. Io sono del paese dell’albero e della foresta, della quercia e del cinghiale, della vigna e dei tetti a punta, della chanson de geste e dei racconti delle fate, del solstizio d’inverno e del San Giovanni d’estate, dei bambini biondi e degli sguardi chiari, dell’azione ostinata e dei sogni folli, delle conquiste e della saggezza. Ecco perché sono un cuore ribelle. Ribelle per fedeltà.” 

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Sandro Marano

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