Ritratti. Carlo Verdone, quando la commedia descrive e risana l’anima

Carlo Verdone
Carlo Verdone

Lo fermano per strada, a Roma, scongiurandolo di non abbandonare la commedia per fare film drammatici, perché il suo cinema è un efficace antidepressivo. Rigore mascherato da ironia, sorriso che tramite la recita trasforma le opere cinematografiche in occasioni per guardare le pieghe della società in cui si vive e le sue incessanti, minuscole, impercettibili ma improvvise modificazioni antropologiche. Carlo Verdone è questo. Ha condiviso gioia di un Oscar con La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino, in cui interpretava il socio di Jep Gambardella, forse l’unico personaggio non affetto da cinismo di tutto quel campionario umano.

Una lunga carriera, irrorata da una passione per il cinema e per l’arte che ha avuto inizio tra le mura di casa (suo padre, Mario Verdone, era studioso e docente di storia del cinema). Carlo parte con le maschere, caricature di tipi umani che danno il via ad una nuova comicità televisiva. Parla di nevrosi, di inadeguatezza, di ansie, con uno stile che ormai ha fatto suo, umorismo di qualità, ricercato, calato nel contesto italiano. Sergio Leone, lungimirante, ha creduto in lui, con la disarmante capacità di costruire un personaggio su un tic, una fragilità nevrotica che regge i tempi del palcoscenico, consacrando così il personaggio medesimo nella gamma dei ritratti dei “tipi”.  Il regista di Per un pugno di dollari gli produce il primo film di cui è anche regista, Un Sacco bello. Segue Bianco Rosso e Verdone, film in cui Carlo calca la mano con i tic e le caricature (esperimento replicato negli anni novanta e negli anni duemila con Viaggi di nozze e Grande, grosso e Verdone), in cui i personaggi, gli episodi e le battute entreranno nella semantica nazionale quando si tratta di fare parodie. Esaurita la carica dei personaggi, Verdone inizia una lunga carriera fatta di immersione nel reale e di analisi sociologica. Gli effetti del femminismo si fanno sentire e lo portano così a pensare ad un nuovo modello di maschio, culturalmente quasi agli antipodi dai modelli rappresentati dalla commedia italiana della generazione precedente. Intrepreta ruoli da uomo tormentato, inquieto, vittima della società del rischio, come la chiamerebbe Ulrich Beck, risultando però un personaggio senza metafore, fronzoli e architetture.

Non ha categorie filosofiche o sistemi ideologici da proporre, analizza, però, con un misto di critica e di empatia, l’uomo, l’essere umano, l’individuo inteso come figura che si barcamena tra processi spesso più grandi di lui, indecifrabili, che lo costringono al Game Over, a ricominciare, lo costringono ad un punto e a capo, il tempo di ripartire anche se a brandelli. La commedia va oltre la maschera e pur esasperando situazioni quotidiane, trova sempre il punto di congiunzione con la società. I film di Verdone possono essere questo, offrono uno spunto, un pensiero diretto verso la possibilità di ricominciare da capo. La fragilità e l’insicurezza come chiave di volta per ripartire, spinte di adrenalina per recuperare autenticità. Commedia esistenzialista, Carlo Verdone ed il suo cinema sono un concentrato di specchi che testimoniano come il cinema possa ritrarre frammenti di realtà.

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Stefano Sacchetti

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