Cinema. Il Don Chisciotte di Gilliam e l’eterno romanticismo fascista

Una immagine da L'uomo che uccise Don Chiscotte
Una immagine da L’uomo che uccise Don Chiscotte

Nella matura società dello spettacolo risulta difficile fruire di una qualche forma d’arte che fuoriesca dagli schemi della distrazione e del consenso sociale. Non è un caso, dunque, che l’apprezzatissimo Don Chisciotte di Terry Gilliam (ex Monty Python) abbia ricevuto dalla stampa mainstream sbrodolanti recensioni dentro le quali tutto è stato toccato e raccontato, tranne il senso proprio del film, ed il suo potentissimo contenuto.

Il motivo è presto detto: “L’Uomo che uccise Don Chisciotte” (2018) è un film complesso, inattuale e inadatto al consumo commerciale delle identità. E’ un film si complesso, ma non per la sua lunga storia produttiva su cui tutti si sono soffermati; piuttosto per la meravigliosa lezione esistenziale che il visionario regista britannico ci ha voluto lasciare a mo’ di testamento artistico.

Cervantes è riportato sulla scena in modo ineccepibile, sia nella satira del rapporto fra intellettuale ed altezza dei tempi e delle epoche, sia nella raffigurazione plastica di come il disincanto satirico incarnato nella figura dell’Hidalgo impazzito, regali a chiunque la crudele possibilità romantica d’essere, contro fato e società, unico regista della propria vita.

Un film quindi che, nell’epoca iper materiale dove Elite e Popoli si accapigliano nella corsa all’accapparramento di risorse finanziarie e morali sempre più scarse, ripropone con inaspettato slancio un romanticismo epico, tutto individuale e drammaticamente inattuale, dentro il quale la riflessione fra l’Io e la circostanza torna a risolversi nella cavalleresca battaglia fra bene e male.

Gilliam ha così la straordinaria bravura di rendere giocosa e teatrale una delle tematiche più profonde del pensare occidentale, che il Chisciotte, al pari del Samurai dell’Hagakure, sintetizza nel suo controverso esser “nato per vivere morendo”, nel costante girovagare alla ricerca della battaglia giusta fra senso e non senso.

E’ in questa ilare, libertaria e tradizionale ricerca errante che alcuni di noi protratto ritrovare la poetica voglia di vita e giustizia che animò la letteratura e l’arte del romanticismo fascista; lungi dal voler arruolare Gilliam e la satira anarchica dei Monty Python in un qualche decadente pantheon della destra, è tuttavia doveroso affermare come il regista britannico nel suo “non capire più il mondo”, ci abbia regalato una piccola perla, un po’ di aria fresca, dopo troppi anni di distrazione e consenso.

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Giacomo Petrella

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