Soft power. La lezione dell’Uk con il matrimonio Harry-Meghan e la debolezza dell’Italia

futurismo 2C’era una volta la propaganda. Ora che a questa parola nefasti significati le si son legati, siamo costretti a parlare di soft power. Già che questa espressione sia anglofona e ingentilisca così un concetto altrimenti orrorifico è sintomatico.

C’era una volta la fiaba di tutte le fiabe. E c’è ancora perché il matrimonio dell’anno, quello tra il principe Harry e l’attrice Meghan Markle è stato raccontato come l’ennesima variazione sul tema principe della retorica rivolta al mondo femminile. Quella, cioé, della ragazza acqua e sapone che, vincendo tutte le ipocrisie e tutti i protocolli, vivendo come le pare, riesce a coronare il sogno di cingere sul capo una corona da principessa. Da Pretty Woman in poi, il cinema ha attinto a piene mani a questo pregiatissimo cliché.

Così ha senso il racconto stucchevole (si può dire?) che di queste nozze è stato fatto. È una questione di propaganda, una fiaba di soft power. È una storia che celebra l’apertura mentale della monarchia inglese che si infutura (sic!) consentendo a un suo rampollo reale di impalmare una ragazza “come tante”. Ciò ha una morale di fondo: chiunque può fare tutto, chiunque può raggiungere i suoi obiettivi, basta credere fermamente ai propri sogni. Insomma, la celebrazione dell’american way of life nella vecchia Inghilterra e nel tempo in cui l’ascensore sociale – l’autentico convitato di pietra alle nozze – è da tempo che non funziona più.

Intanto, però, questo matrimonio ha creato consenso attorno alla regina, attorno ai reali d’Inghilterra e, soprattutto, ha creato immaginario cementando e rafforzando l’idea di libertà e d’uguaglianza dove anche l’ultima cameriera di Soho può sognare legittimamente di diventare duchessa di Kent. O una grande erediteria, oppure una star di Instagram.

Ne esce rafforzatissimo il prestigio inglese, si conforta l’autocritica  dell’Occidente a rimirare l’avverarsi di uno dei suoi capisaldi pop (diventeremo tutti borghesi).

La battaglia culturale passa anche, forse soprattutto, dalla guerra per la reputazione, quello che l’inglese globalish definisce, appunto, soft power. Ogni popolo, ogni nazione, ogni Stato ha un patrimonio culturale che consente, o almeno dovrebbe consentire, a ogni persona di rispondere all’omerico dilemma: “Chi sei tu, tra gli uomini?”.

Anche questa battaglia è ormai su scala mondiale, planetaria. Il disinteresse, il calcolo economico di piccolissimo cabotaggio, rischia di travolgerci ancora. In Europa, l’immagine dell’italiano è quella di una simpatica canaglia che fa commercio della sua parola, poco preziosa dacché la tradisce in continuazione. È l’idea del Nord Europa, protestante e avvelenatissimo – da secoli – contro l’opulenza romana.

Nel mondo, è una macchietta più italoamericana che italiana. È nelle cartoline seppia dipinte da Woody Allen, nei completi indossati dall’inclemente Joe Bastianich, nelle smorfie patetiche di Luigi Risotto, il cliché italiota de I Simpson, nelle pagliette insopportabili da guappi col colesterolo alto e la mamma imbiancata. Insomma, roba da barzelletta.

Per questo, chi continua a credere di disertare la trincea culturale, chi prosegue a ritenere tempo perso quello passato a scrivere, a leggere, a vedere e pensare film, ad ascoltare musica, a riprendere matrimoni, a raccontare e immaginare la fantasia e la realtà, si renda conto dei suoi stessi danni. E non si lamenti del matrimonio faraonico del principe Harry.

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Giovanni Vasso

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