Cultura. Addio ad Arrigo Petacco storico libero che raccontò il prefetto Mori, Pavolini e Muti

Arrigo Petacco
Arrigo Petacco

Come quando si va a cena con una ragazza il momento più importante non è la cena, ma il dopocena, così quando curavo con Romano Battaglia i “Percorsi del Novecento” al Caffè letterario della “Versiliana” il momento più interessante non erano gli incontri dinanzi al pubblico, ma le conversazioni che seguivano, nella cena sotto le stelle allo spartano ma piacevole ristorante all’aperto del Bagno Pietrasanta. Anche gli intervistati che non avevano voluto svelarsi dinanzi al pubblico si scoprivano dinanzi a un piatto di spaghetti allo scoglio: l’uomo di spettacolo o di cultura scendeva dal palco e diveniva un uomo e basta.

Per Arrigo Petacco, di cui ho appreso con dispiacere dai giornali la scomparsa, questo valeva forse ancora di più. Non che i suoi interventi sul palco fossero paludati o tediosi, tutt’altro. Nelle interviste di questo grande artigiano del revisionismo storico frizzava il gusto dell’aneddoto piccante, della sortita controcorrente, dell’approccio irriguardoso e dispettoso a un personaggio. Ma si trattava, naturalmente, di personaggi della storia.

C’era il colonnello José Moscardó, protagonista dell’epica resistenza dell’Alcazar, comandante non della fortezza, ma della scuola di ginnastica dell’esercito ubicata nello stesso edificio, che al termine di un’opaca carriera aveva come massima aspirazione accompagnare la rappresentativa militare spagnola alle Olimpiadi di Berlino. L’Alzamiento lo colse di sorpresa perché, ormai prossimo alla pensione, nessuno l’aveva coinvolto nella cospirazione, ma, ufficiale più alto in grado, prese il comando dell’Accademia militare, in cui però mancavano i cadetti perché erano cominciate le vacanze estive. Divenne così l’eroe per caso di un golpe di cui era stato tenuto all’oscuro e avrebbe ispirato a Genina una delle più riuscite pellicole della cinematografia in camicia nera, molto apprezzata dal giovane Antonioni.

C’era Ettore Muti, il “Gim dagli occhi verdi” caro a d’Annunzio, il personaggio del fascismo forse più caro a Petacco: noto tombeur de femmes, richiamato alle armi in aeronautica, i suoi superiori avevano scritto sulle sue note di qualifica, alla voce “vita privata”, “puttaniere”. Ma le pressioni del partito, preoccupato di non vedere sputtanata (in tutti i sensi) l’immagine di un gerarca, li costrinsero a sostituire l’espressione con un eufemistico “molto virile”. C’era Mussolini, che durante la guerra di Spagna chiedeva invano a Franco di risparmiare i prigionieri, i quali, se catturati dalle truppe franchiste, venivano passati per le armi come ribelli, mentre se cadevano nelle mani degli italiani avevano salva la vita. E insieme a loro, naturalmente, tanti altri, protagonisti e comprimari, perché la cultura storica di Petacco spaziava in tutti i campi, dal Ventennio all’età giolittiana, dal dramma dei prigionieri italiani nell’ultima guerra alla Vandea.

A tavola, però, dalla storia si passava alla cronaca, da un passato più o meno remoto a un passato prossimo vissuto attraverso mezzo secolo di giornalismo nella carta stampata e in televisione. Ed era piacevole sentire quello che raccontava, anche se non tutto, per esempio certi particolari piccanti sul secondo matrimonio di Fanfani, è ancor oggi raccontabile. Fra gli aneddoti inediti ce ne furono tre che mi colpirono in particolar modo. L’uno riguardava gli esordi della carriera giornalistica di Petacco. Privo di appoggi nel mondo della carta stampata, Arrigo, ancora adolescente, aveva preso a inviare i suoi articoli a diverse testate, nella speranza che, anche senza alcuna presentazione, gli venissero pubblicati. Continuò a lungo in una serie di tentativi che avrebbero demoralizzato chiunque altro, ma non lui; alla fine, quando per caso si vide pubblicato un articolo su Carducci su un quotidiano locale capì che ce la poteva fare. Ulteriore conferma del fatto che la perseveranza, se sommata al talento e a una buona dose di fortuna, a volte nella vita può premiare.

Un altro aneddoto riguardava il “Il Lavoro” di Genova, storico quotidiano socialista che aveva mantenuto una propria autonomia persino durante il fascismo. In quel giornale i redattori iscritti al Psi beneficiavano di uno stipendio doppio rispetto ai giornalisti senza tessera. Interrogato sul motivo, l’allora direttore, che poi sarebbe divenuto Presidente della Repubblica e avrebbe finito per rimare con spaghetti al dente, replicò con un disarmante: “Ma noi siamo compagni socialisti”. Difficile non pensare alla Fattoria degli Animali di Orwell, in cui tutte le bestie erano uguali, ma alcune erano più uguali degli altri.

Il terzo aneddoto riguardava il presunto protagonista della liberazione di Mussolini dal Gran Sasso, il colonnello Otto Skorzeny. Petacco ed Enzo Biagi andarono a intervistarlo con la loro troupe, una di quelle grandi troupes ancora cinematografiche che usavano negli anni d’oro della Rai. L’ufficiale delle SS viveva, in Spagna dove si era rifugiato, con una professoressa di educazione fisica molto piacente. All’intervista seguì una cena, durante la quale Skorzeny, che aveva alzato un po’ il gomito, si mise a irridere i Carabinieri del Gran Sasso che si erano squagliati al primo apparire del suo aliante. Petacco e Biagi, ma anche i membri della troupe, ci rimasero male; la moglie si alzò per andare a letto. A un certo punto un cameraman si eclissò ritornando solo dopo un’ora. “Ho vendicato i Carabinieri” confidò a Biagi, e tutti capirono che aveva fatto molta ginnastica con la professoressa di ginnastica.

Per la verità, Petacco raccontò anche un altro aneddoto su un noto “faccendiere” che da ragazzo viveva, come lui, a Portovenere e che per sbarcare il lunario aveva inventato un abile espediente. La notte, quando non c’era nessuno, si gettava in acqua nel porticciolo e “imbrugugliava”, ovvero annodava in maniera quasi inestricabile, le cime delle imbarcazioni di lusso all’ancora. Il giorno dopo i ricchi proprietari non sapevano come fare a sciogliere quei nodi subacquei che impedivano di salpare ed erano ben lieti di accettare le sue offerte d’aiuto, previa, naturalmente, una lauta mancia. Molti anni dopo, “imbrugugliato” a sua volta nelle maglie di un’inchiesta che gli attribuiva per il suo ruolo nei servizi segreti responsabilità superiori a quelle che realmente aveva, si fece molti anni di carcere. Come si diceva in Sicilia al tempo in cui gli operai erano retribuiti ogni fine settimana, “Dio non paga il sabato”.

Aneddotica a parte, l’impressione che ritrassi da Petacco fu quella di una persona piacevole e fortunata, come lo sono state molte persone che sono entrate nel giornalismo negli anni aurei, hanno fatto carriera anche senza una laurea, si sono divertiti come inviati speciali di grandi quotidiani e della Rai. Mi colpì la sua posizione nei confronti del fascismo: lui che aveva esordito nel giornalismo in un quotidiano di sinistra come “Il Lavoro”, era critico verso il regime, ma nutriva per Mussolini  una simpatia che avrebbe confermato nella nota intervista rilasciata nel 2014 al blog di Beppe Grillo, dichiarandosi scettico sulle sue responsabilità nell’assassinio di Matteotti.

Si può discutere se Petacco sia stato un vero e proprio storico o un divulgatore, sostantivo che nell’uso corrente ha finito per assumere un’accezione dispregiativa, visto anche il disprezzo degli intellettuali di sinistra nei confronti del “volgo”, ovvero del popolo. È nota la polemica della corporazione degli storici accademici nei confronti dei giornalisti, accusati di vivere parassitariamente sul loro lavoro di ricerca, pubblicando libri che poi finiscono per vendere più dei loro, frutto di sudate ricerche. Ma l’accusa è poco fondata, per almeno due motivi. In primo luogo non sempre i seriosi saggi degli accademici sono davvero originali; molti di essi, anche se sorretti da un imponente apparato di note a piè di pagina, nascono – magari per l’esigenza di “fare pubblicazioni” in vista di un concorso – dalla collazione di opere preesistenti. Circola negli ambienti universitari un vecchio detto secondo cui chi copia da un solo libro fa un plagio, chi copia da cinque libri diversi fa un saggio critico. Inoltre, bisogna ammettere che, anche quando producono ricerche di indubbio valore e originalità, gli storici universitari difficilmente riescono a scrivere in uno stile chiaro e scorrevole, adatto a farsi capire dal grande pubblico. È noto il caso del grande Renzo De Felice, la cui biografia di Mussolini, straordinaria per ricchezza di documentazione e profondità delle analisi, è tuttavia di faticosa lettura per la complessità del periodare e anche per la tendenza, piuttosto che a descrivere i fatti, a fornire di ogni evento o problema un’articolata gamma d’interpretazioni. Questo credo derivi da una forma mentis che gli studenti acquisiscono nelle facoltà di Lettere, dove si guarda con diffidenza a chi ha uno stile spigliato, brillante, “giornalistico”, e si confonde spesso la serietà con la seriosità. Chi ambisce a una cattedra o anche a una semplice borsa di studio si adegua e poi difficilmente riesce a ritornare a una diversa tecnica di scrittura, più attenta alle esigenze del lettore.

Se Petacco fu un divulgatore, fece comunque alta divulgazione e in certi casi, come nel caso delle biografie del prefetto Mori, di Pavolini, di Muti, di Petrosino, dell’anarchico Bresci, condusse ricerche originali, che avrebbero aperto la strada agli storici di mestiere, magari dopo aver ispirato pellicole e sceneggiati televisivi. Certo, il desiderio di compiacere il gusto del pubblico e l’affanno di rispettare i tempi di consegna potevano farlo cadere in qualche approssimazione, in cui per altro capita d’incappare anche agli accademici. Ma il suo gusto della ricerca sul campo, la sua curiosità intellettuale, la sua assenza di pregiudizi ideologici ne fanno un esempio di rara onestà e operosità intellettuale. Sotto la sua direzione la rivista “Storia Illustrata” visse forse i suoi ultimi giorni di gloria.

Meno felice fu la sua esperienza come direttore di quotidiano. Chiamato dall’editore nel 1986 alla guida della “Nazione”, entrò in contrasto col comitato di redazione. Della vicenda, Petacco mi fornì privatamente la sua versione: l’editore aveva deliberato un drastico piano di riduzione del personale, che il sindacato interno aveva accettato, ottenendone in cambio la nomina a corrispondente dalla capitale francese di un suo esponente di spicco: Parigi, insomma, valeva qualche licenziamento. Lui, negoziando personalmente con la proprietà, aveva ottenuto una riduzione degli esuberi, ma era stato lo stesso contestato dal comitato di redazione, perché anche il trasferimento in Francia del sindacalista era saltato nella trattativa. Petacco però commise l’errore psicologico di pretendere di partecipare all’assemblea sindacale indetta per discutere del piano aziendale, forte del suo tesserino di giornalista. Era una sgrammaticatura rispetto alla sintassi delle relazioni aziendali, che vedeva nel direttore più una controparte che un primus inter pares; ma questa sgrammaticatura gli costò cara e lo portò a lasciare nel 1987 il suo incarico, dopo mesi trascorsi barricato dietro la sua scrivania. Non escludo che nella sua versione vi sia una parte di verità, ma da quanto sono venuto a sapere più tardi da confidenze di testimoni più che attendibili, a Petacco fu rimproverato di aver preteso di dirigere quello che ormai era un quotidiano locale da lontano, distratto dai suoi numerosi impegni televisivi e di ricerca: un peccato che la maggior parte dei redattori non gli avrebbe perdonato.

Il fatto è che Petacco non aveva la stoffa del direttore quale ormai è comunemente inteso, un uomo macchina, più simile al redattore capo di un tempo. Era nato per scrivere, più che per dirigere; era vocato alla storia, più che alla cronaca. I suoi inviati migliori – come Umberto Cecchi, che ne ha pubblicato sulla “Nazione” un nobile ricordo – li mandava più volentieri a Dongo sulle tracce dell’autoblindo con cui i fratelli Utimpergher si erano illusi di proteggere Mussolini che a seguire le labili tracce del “mostro” di Firenze. Questo fece sì che Petacco, snobbato dagli storici come giornalista, fosse guardato con sospetto da molti giornalisti in quanto storico: destino comune a chi non è di facile etichettatura. Resta il fatto che dei suoi quasi cento volumi qualcosa rimarrà, anzi molto: se non altro l’insegnamento che la storia non si può scrivere senza l’umiltà del cronista e che non si può fare bene della cronaca senza capire che prima o poi anch’essa diverrà storia. E pazienza se nei suoi libri non ci sono le note a piè di pagina: in tanti saggi critici o presunti tali ci sono le note a piè di pagina, ma non c’è il libro.

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Enrico Nistri

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