Il commento (di E.Nistri). Gli uomini liberi, Prezzolini e la boiata dell’anagrafe antifascista

Un bosco di tricolori
Un bosco di tricolori

Quando avevo vent’anni, non nutrivo troppa simpatia nei confronti di Giuseppe Prezzolini. Nell’età delle negazioni e delle affermazioni assolute, in quella sbornia dell’ideologia che furono gli anni Settanta, mi fu difficile riconoscermi nel suo atteggiamento scettico, che mi pareva arido di passione e di sentimenti. Non c’è bisogno di maestri per dubitare,  il ne faut de maitre pour douter,  dicono i francesi. E quando si è giovani si ha bisogno di maestri. Ad accrescere la mia impazienza furono anche due articoli che Prezzolini pubblicò sulla terza pagina della “Nazione”. Uno era una mezza stroncatura di Ezra Pound all’indomani della sua morte, l’altro una difesa d’ufficio di papa Montini, che in omaggio all’Ostpolitik aveva ricompensato l’eroico cardinal Mindszenty, costretto per decenni a vivere segregato nell’ambasciata statunitense dopo la repressione della rivolta del ’56, esautorandolo dalla carica di primate d’Ungheria.

A farmi rivedere il mio giudizio su di lui fu soprattutto la pubblicazione dei suoi diari, la sua opera più alta e più bella, anche perché scritta non per il borderò ma per l’eternità. Non manca anche in quelle pagine la farragine dei risentimenti personali o delle preoccupazioni alimentari. Ma la lucidità dei giudizi su uomini, nazioni, continenti e movimenti fa di questi volumi un capolavoro degno di stare almeno alla pari del Diario dei Goncourt, se non dello Zibaldone di Leopardi.

Giuseppe Prezzolini

Proprio per questo, anche se non c’entra nulla, mi è sorta spontanea una domanda dopo aver seguito le polemiche legate alla decisione di molte amministrazioni locali di concedere agibilità politica solo ai privati o alle associazioni che sottoscrivono una sorta di autocertificazione di antifascismo. Che cosa avrebbe fatto Prezzolini, dinanzi alla richiesta di iscriversi all’anagrafe antifascista, ritenuta da certi Comuni indispensabile per l’esercizio dei diritti politici?

Prezzolini, infatti, padre fondatore e storico direttore della “Voce”, che costituì la culla sia del fascismo sia dell’antifascismo, rifiutò sempre di schierarsi dall’una o dall’altra parte. Favoleggiò di un’ideale “repubblica degli apoti” (non degli astemi: amava, con moderazione, il Chianti), ovvero di coloro che non la bevono, che non si fanno travolgere dalle passioni del momento. Fu amico di Gobetti e di Mussolini, scrisse biografie non corrive di quest’ultimo e di Amendola. Quando il fascismo diventò regime si trasferì a insegnare italiano in un’università statunitense, lui che non aveva nemmeno preso la maturità, per conservare la sua indipendenza di spirito. Non aderì al regime, a differenza di molti futuri compagni di strada del Pci, ma si rifiutò sempre di dichiararsi antifascista. Salvemini, con cui aveva una vecchia ruggine, lo accusò di essere un emissario del regime in America, ma gli statunitensi gli credettero così poco da concedere a Prezzolini la cittadinanza nel 1940, quando era già scoppiata la seconda guerra mondiale.

Il fondatore della “Voce” fu invece sempre anticomunista e non si smentì nemmeno quando nel 2002, dietro intercessione di Spadolini, Pertini in occasione del suo centesimo compleanno gli consegnò al Quirinale la Penna d’Oro (“omaggio della storia alla preistoria”, commentò Montanelli in un caustico Controcorrente, ma omaggio molto modesto, per un uomo che avrebbe meritato un seggio di senatore a vita). Quando gli fece gli onori di casa il repubblicano Francesco Compagna, presentandosi col cognome, come usa, fece per andarsene, sdegnato. Il suo labile udito di centenario aveva sentito un “piacere, compagno” invece di un “piacere, Compagna”, e aveva pensato di trovarsi in un covo di bolscevichi.

Comunque, di una cosa sono sicuro: Prezzolini non si sarebbe iscritto in nessuna anagrafe, perché rimase fino all’ultimo un uomo libero rifiutando di farsi rinchiudere nelle gabbie dell’ideologia. E avrebbe guardato con sovrano disprezzo a questa trovata che, se dovesse venire imposta in tutto il territorio nazionale, magari come prerequisito per accedere ai pubblici impieghi, presenterebbe un’inquietante analogia col giuramento di fedeltà estorto dal regime ai professori universitari. Perché, spiace dirlo, imporre  con metodi fascisti l’adesione all’antifascismo è come pretendere d’insegnare ex cathedra i principi della scuola attiva. Ma purtroppo è molto più pericoloso.

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Enrico Nistri

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