Poesia 2.0. Silvio Raffo: “Tradurre Emily Dickinson è esperienza misteriosofica”

(foto: Dino Ignani)
(foto: Dino Ignani)

Slanciato, istrionico, vezzoso, amante dell’abbigliamento sgargiante e a tratti incorreggibile come un ragazzaccio. Silvio Raffo è un personaggio indefinibile, un sorprendente incontro di serietà e facezia. È il più famoso traduttore italiano di Emily Dickinson. Non dovete, però, immaginarvelo come un vecchio studioso chino sui libri. Raffo ama la ribalta. Sale volentieri sul palco, a recitare la sua amata Emily, con l’esaltazione di un cantante rock durante un concerto.

Sono oramai trascorsi vent’anni dall’uscita di quel prezioso volume dei Meridiani Mondadori dedicato alla poetessa di Amherst, che vede, per la maggior parte delle liriche contenute, sue traduzioni (a quanto pare, si tratterebbe anche del volume più venduto della collana).

Siamo andati a intervistarlo per scoprire come sia nata la sua passione per la Dickinson, le difficoltà che il traduttore incontra nel confronto con i testi, e per ascoltare i suoi suggerimenti di lettura in merito a tante poetesse ignorate dai più.

 

 

Silvio Raffo, come nasce la sua passione per Emily Dickinson?

 

La mia passione per E.D. risale alla quarta ginnasio. Sfogliando l’antologia di Letteratura Inglese trovo la sua immagine e il suo nome che si staglia nitido sulla pagina, sopra il testo di To make a praire (“Per fare un prato occorrono un trifoglio ed un’ape –/ un trifoglio ed un’ape/ e il sogno!/ Il sogno può bastare/ se le api sono poche.”) . Colpo di fulmine. Strana subitanea attrazione per quel nome, quel volto, quei versi. La mia Professoressa di Inglese la conosce appena. Inizio a tradurre alcune poesie (trovate con difficoltà in biblioteca), per mio puro diletto. Attività che prosegue per anni, finché ne invio qualche saggio a Giorgio Barberi Squarotti che, molto ammirato, mi suggerisce di proporle a un editore torinese, Fogola. Nel 1986 esce Poesie, con litografie di Dolores Sella, e duecento mie traduzioni (appena ristampate da La Vita Felice, con il titolo Il giardino della mente). Determinante, nel 1989, l’incontro con Marisa Bulgheroni. Avendo assistito al mio recital I’m nobody! Who are you? (recital che porto sulle scene da trentun anni), mi propone di tradurre tutte le poesie di Emily per un Meridiano, che vedrà poi la luce nel 1997.

Ah, quasi dimenticavo, ma è doveroso che lo dica: a ispirarmi per il mio spettacolo è stata Lisa Pancrazi, una grande attrice poco conosciuta, che a Roma propose Io sono un nome, un monologo dedicato a Emily che letteralmente mi estasiò.

 

Qual è la caratteristica che rende la lirica della poetessa di Amherst sempre attuale?

 

E.D. è un fenomeno inspiegabile. Scrive ispirata da un  nume, in modi che riecheggiano a volte qualcosa di antico, ma che metricamente introducono qualcos’altro di sorprendentemente innovativo.

Vi è poi un altro aspetto interessante della sua lirica che, a mio avviso, la rende particolarmente originale: la descrizione del sentimento dell’amore. Il sentimento dell’amore in E.D. è illustrato con termini tendenti al metafisico, più spesso che in cornici di realismo che permettano un’identificazione con qualcuno di esistente. A volte il tu è minuscolo, quasi sempre maiuscolo e nella versione arcaicizzante thou. Si tratta di un tu trascendente. Probabilmente è lo “shapeless friend” che “pone alla sua vita la cintura“. Insomma, l’Essenza dell’Amore e non una persona reale. Solo in qualche testo è riconoscibile la figura del reverendo Charles Wadsworth, (cfr. I cannot live with you), ma nella stragrande maggioranza dei casi è un essere indefinito e indefinibile. Il “padrone” della celebre poesia My life has stood a loaded gun, in cui Emily s’identifica nel fucile, potrebbe essere la Poesia stessa. Così come il “King” di molti testi potrebbe essere la Morte. L’Amore oscilla fra questi poli: un essere umano che non appartiene al Tempo, la Poesia e la Morte, “seducente vagheggino/ che finisce per vincere”. Nessuno ha mai descritto l’Amore e la Morte con simile originalità e potenza d’immagini, talvolta in toni horror che riecheggiano l’Edgar Allan Poe poeta.

 

A suo avviso, quali sono nella storia della poesia le antesignane della Dickinson?

 

Emily non si rifà a nessuno, essendo anch’ella Nessuno, (e Tutto). Non ci sono spiegazioni razionali per il suo stile già ermetico, simbolista e surrealista, a metà dell’800. Chi scriveva, allora, poesie di tre versi? To see the summer sky is poetry/ though never in a book it lie / true poems flee. Nessuno. La prima sinestesia della lirica inglese è “Blue, stumbling buzz” (ronzio azzurro) riferito al ronzare della mosca che la conduce nell’aldilà in I heard a fly buzz when I died. Conosciamo qualcosa di simile a questa poesia e alle altre che definisco “Cronache del Trapasso” (nel mio saggio La sposa del terrore. Poesi di morte e immortalità. Book editore)?

 

Quali poetesse hanno raccolto la lezione della Dickinson riuscendo a trasporla, in modo innovativo, successivamente alla sua morte?

 

Le altre sono sorelle, “ancelle” di Emily, ma molto diverse da lei come resa espressiva. La più simile è Emily Brontë (mi son divertito a evidenziare alcuni passi analoghi nelle due vergini recluse) e, subito dopo, Christina Rossetti (in cui prevale però la dolcezza e il misticismo). Sara Teasdale ed Edna St.Vincent Millay la riecheggiano inconsapevolmente. Dorothy Parker e Wendy Cope sono le più lontane da lei: tendono alla frivolezza del little song, anche se un certo cinismo o distacco nei confronti delle passioni umane la potrebbero ricordare.

 

Lei ha tradotto una vasta porzione dell’opera della Dickinson. A quali altre traduzioni riconosce, comunque, un certo valore?

 

Le traduzioni che precedono la mia sono quelle di Margherita Guidacci, Dyna Mc Arthur Rebucci, Guido Errante. La migliore per me è quella della Mc Arthur Rebucci, edita da Guanda nel ’61. Buona anche quella di Margherita Guidacci. Errante invece quella di Errante, che la rende in linguaggio aulico e carducciano, ottocentesco (mentre Emily è avanti di un secolo). Fra quelle che seguono alla mia, segnalo quella ottima di Nadia Campana (presente anche nel Meridiano con cinquanta sue versioni), Alessandro Quattrone, Ginevra Bompiani.

 

 

Qual è la massima difficoltà che il traduttore possa incontrare nel suo lavoro sulla Dickinson?

 

Ho tradotto finora 1400 testi dickinsoniani. Tradurre Emily è un’esperienza misteriosofica, poiché si tratta di oracoli in versi. Uno dei misteri per i miei colleghi traduttori è che io sia riuscito a renderla così agevolmente in italiano, pur non essendo un anglofilo. D’altra parte, ho tradotto altre nove poetesse angloamericane. Evidentemente, si tratta di affinità d’anima e di cultura.

 

Tra le poetesse italiane che ha letto, in quali ha riscontrato l’influenza di Emily Dickinson?

 

Epigone nel ’900, in Italia, non ne vedo, se si eccettua forse la traduttrice e poetessa Margherita Guidacci, in  alcuni testi della splendida e dimenticata raccolta Neurosuite, scritta durante una degenza in ospedale psichiatrico, e forse qualche testo della Spaziani.

 

Sappiamo che la storia della Dickinson è quella di una poetessa rimasta sostanzialmente ignota in vita. Lei, però, Raffo, ha scritto su tante altre che come la sua amata Emily non hanno conosciuto la fama, o sono state ingiustamente dimenticate. Tra queste, di quali consiglierebbe la lettura?

 

Antonia Pozzi è l’altra grande dimenticata. Anche lei l’ho incontrata durante il ginnasio e  l’ho amata subito (come un’altra ignorata da tutti, Maria Gloria Sears). La poesia che mi ha fatto innamorare di Antonia è stata Morte di una stagione (oltre a Pudore). La Pozzi ha un mood molto più lirico e meno acuminato di Emily, richiama Sergio Corazzini e Ada Negri.

 

A suo giudizio, esiste una scrittura al femminile, ovvero un modo di fare poesia e prosa che rimandi a un sentire precluso agli uomini? Oppure, ogni grande autore è al di sopra di qualsiasi determinazione di genere nello scrivere?

 

Sì, esiste secondo me uno specifico elemento “femminile”, in poesia: la peculiare capacità di ricezione “passiva” dell’Estasi e dei “suggerimenti” del trascendente, ma anche una vibratilità  di “nervenkunst”. In altri termini, la presenza di sfumature più sottili rispetto alla poesia scritta da uomini (se si eccettuano Pascoli, Gozzano e Corazzini, che in effetti sono maschi solo all’anagrafe). Ritengo che non sia per nulla offensivo, né “ghettizzante”, parlare di poesia femminile. Significa semplicemente poesia scritta da donne. La sensibilità femminile è più  portata all’introspezione fantasmatica.

@barbadilloit

Matteo Fais

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