StorieDiCalcio. I pionieri, Di Bartolomei e Siberiano: al Vestuti di Salerno il racconto di un Paese

vestuti 1La domenica pomeriggio, ‘a controra. Si riposa dalle fatiche del pranzo in famiglia, si sonnecchia godendosi l’ultimo raggio di sole, prima che l’autunno trasformi la brezza fresca in vento gelido. Eppure c’è chi non riposa, come i ragazzi dell’associazione culturale 19 giugno 1919. Si danno il cambio, accolgono qualche sventurato (come chi scrive) che proprio quest’orario ha scelto per farsi vedere, salgono e scendono tra l’esposizione e gli spalti. A Salerno c’è una mostra che è troppo interessante, mancarla sarebbe un peccato e si deve solo a loro.

Li avevamo conosciuti quando s’erano messi in testa di raccogliere tutte le maglie della Salernitana. Ci riuscirono, fu un successo eccezionale. E adesso hanno saputo ripetersi con un’iniziativa intelligente, affascinante e ben più ambiziosa di quanto si possa solo immaginare.

Da venerdì e fino a domenica, lo stadio Donato Vestuti s’è raccontato insieme alla “sua” Salernitana. Il calcio, insieme al suo tempio, è solo una scusa per raccontare come sia cambiata una città. E con lei tutta una nazione. Perché lo sport – e non è una frase fatta né un refrain acchiappaclic – è l’unica metafora che racconta fedelmente, oggi, i cambiamenti culturali di un popolo intero.

La mostra è rigorosamente suddivisa per decadi. Deliziosa l’anteprima, quella dedicata agli anni ’20. È il necessario prologo per meglio capire come sia nato lo stadio. La squadra, che nasce nel 1919, macina inaspettatamente buoni risultati e trebbia passione. Il primo campo che ospita la Salernitana (all’epoca vestita di bianco e di azzurro, il granata arriverà solo poi) è il “Piazza d’Armi”. Gremito di gente di ogni ceto e condizione sociale, cappelli e giacconi dietro fragili cancellate di fil di ferro. Quelle immagini strappate al logorio del tempo che passa sono praticamente uguali a quelle che arrivano d’Oltre Manica, che girano sui social e che hanno acceso i cuori di tanti al calcio inglese: hanno lo stesso identico fascino.

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Tanta passione, si pensò all’epoca, merita uno stadio vero. Così, archiviato il progetto grandioso di costruirne uno a ridosso del mare anche a causa di problemi legati all’esproprio di quei terreni, nel 1929 si arriva al progetto dello Stadio del Littorio. Il progetto è ambizioso e, all’inizio, prevede addirittura l’istallazione di tre statue equestri all’entrata. Un’idea che, però, sarà subito sostituita dal più fattibile allestimento della facciata addobbata con due fasci littori. Il 28 ottobre del 1934, dopo la conclusione dei lavori per la tribuna, lo Stadio viene inaugurato e inizia (ufficialmente, perché ufficiosamente già ci si giocava) la sua lunga vita sportiva. Risale proprio a quegli anni una delle chicche in mostra: i biglietti che al modico costo di due lire consentivano di assistere agli incontri della Salernitana dal settore Prato. Come ai concerti.

Con la guerra e lo sbarco degli angloamericani, lo stadio subisce i primi cambiamenti. I fasci della facciata vengono “disarmati” dell’ascia. Il nome deve cambiare. Nell’incertezza, lo chiamano “Stadio comunale”. Dopo la cessazione delle ostilità, nel 1949, si riaprirà il dibattito toponomastico. L’idea era quella di intitolarlo a Renato Casalbore, salernitano e storico fondatore di Tuttosport tragicamente scomparso, con il Grande Torino, nella tragedia di Superga.

La spunterà, invece, Donato Vestuti. Giornalista anche lui, ebolitano di nascita, figlio di un noto avvocato, pioniere del calcio a Salerno, contribuì – nel 1913 – alla fondazione del Foot Ball Club Salerno. Morì prima che nascesse la Salernitana, a 37 anni, colpito a morte da una granata nemica sul Carso, nel novembre del 1918, appena dieci giorni prima che venisse firmato l’armistizio.

Il Littorio, dopo la breve parentesi da Comunale, diventa Vestuti. E riprende la vita sportiva. Da Comunale aveva assistito alla prima volta dei granata in serie A, nel 1947-48. Valentino Mazzola, Loik, Gabetto e il Grande Torino diedero spettacolo qui. La Salernitana, tignosa come il piccolo Cavalluccio Marino che ispirò il suo emblema, tenne a battesimo il Vianema, consacrando il genio calcistico di Gipo Viani, artefice di quella storica promozione (nonché del catenaccio all’italiana di cui a Salerno si vanta la primogenitura). Finì con una retrocessione amarissima, ma – per parafrasare certo lessico del calcio di oggi – a “testa alta”.

Il Vestuti, insieme alla sua gente, assisterà a tonfi e trionfi, sullo scenario appassionato, caldo e a suo modo geniale di una delle piazze più importanti del calcio provinciale italiano. Qui sboccerà il talento impetuoso di Pierino Prati, quasi saltò la carriera (poi luminosissima) di un giovanissimo Walter Zenga. Si succederanno presidenti, gioie e miserie della pedata nostrana. Poi, nel ’63, il triste primato: uno spettatore, Giuseppe Plaitano, muore a seguito degli scontri a margine di un Salernitana-Potenza. Ex maresciallo di Marina, fu ucciso da un colpo sparato per sedare gli animi.

La storia che quello stadio racconta è quella di un calcio popolano che dagli anni ’50 fino agli ‘80 pure ebbe pennellate scintillanti, che fecero disperare e gioire gli spettatori che al Vestuti si assiepavano. Brocchi, mattatori, istrioni, campioni in erba, derby ad altissima tensione, amicizie e rivalità. Alla ricerca di un riscatto sportivo che desse finalmente lustro alla città. La storia del calcio, appunto. Così come è in provincia, così come è stato in Italia.

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Un’intera sala è dedicata ai personaggi che hanno scritto la storia. Al Vestuti colse l’ultimo trionfo della sua carriera il grandissimo Agostino Di Bartolomei. Nel 1990, la “sua” Salernitana poté festeggiare il ritorno in serie B dopo un lunghissimo purgatorio in terza serie. Sventolando quell’ultimo successo, a suggello di una promessa mantenuta, si ritirò dal calcio giocato. La sua maglia, quella con il numero 8, un gessatino granata a righine bianche era in bella mostra tra i cimeli immancabili. Quella fu anche l’ultima vittoria vissuta al Vestuti. Lo stadio “chiuse” nel ’90. Erano i tempi di Vattene Amore (che per anni sarà l’inno della Salernitana), del Ciao, delle notti magiche dei mondiali di Italia ’90. L’anno dopo, la Salernitana traslocò al nuovissimo impianto dell’Arechi.

E come non poteva mancare la maglia bianca e granata di uno dei grandi personaggi della storia della Salernitana, e del Vestuti? Quella di Carmine Rinaldi, meglio conosciuto negli ambienti ultras italiani come il Siberiano. Fu tra i personaggi iconici del tifo salernitano, di quella generazione che, con Ciccio Rocco e gli altri a cavallo tra gli anni ’80 e i ’90, cambiò il modo di concepire e di manifestare il sostegno alle sorti della propria squadra. Il Vestuti, che era già chiuso ormai da anni, si riaprì tristemente nel 2010 quando al Siberiano, sotto una pioggia scrosciante, furono concessi dalla “sua” Curva Sud, gli onori che si confacevano a una grande figura come era stata la sua.

I brividi percorrono i visitatori. C’è il nonno che accompagna il nipote, che si ricorda com’era il mondo quando aveva la sua età e nel farlo soffoca una lacrima tra le mille domande del bambino. Ci sono centinaia di giovani che il Vestuti, per ragioni d’età, non hanno potuto viverlo. Ci sono decine di uomini, ragazzi di una volta, che guardano un gruppo di bimbi tirar calci a un Super Santos. Ci sono gli ex calciatori, loro amici e parenti. C’è la memoria che va oltre al semplice “come eravamo”, quando allo stadio si andava con l’abbonamento che era solo una cartolina da forare e le telecamere ripigliavano solo le partite di A.

La mostra del Vestuti non è stata solo una storia locale, legata alla città di Salerno. E neppure solo una storia sportiva, legata al calcio. E nemmeno una storia di costume, legata alla cultura ultras. La mostra al Vestuti è stata un successo perché ha unito il racconto di una città a quello dello sport e al racconto sociale e culturale di tutto il mondo nazionalpopolare che attorno al calcio, alla passione si muove. Un racconto che è fedele resoconto dei cambiamenti culturali di intere comunità. Storie che solo il calcio, almeno in teoria libero da schemi e preconcetti, può raccontare in tutta la loro disarmante e affascinante verità.

@barbadilloit

 

Giovanni Vasso

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