StorieDiCalcio. Così Santo Garrincha da Copertino ha dribblato anche la morte

garrinchaMané Garrincha non si trova più. Dicono che le sue ossa non siano più al cimitero di Rio de Janeiro. La figlia ha raccontato al mondo, qualche mese fa, della scomparsa dei resti del padre, dovevano esumarlo per far largo a un’altra parente deceduta. Nel loculo non c’era più nulla. Imprendibile pure da morto, il grande, grandissimo Garrincha.

Uno scherzo della natura: una gamba più corta dell’altra, andatura caracollante, strabico. Dissero di lui che aveva l’intelligenza di un bambino di quattro anni, favoleggiarono di sue doti priapiche. Un satiro, fatto e finito. La fisicità precaria, figlia della miseria più ottusa, fu già leggenda che fece del Botafogo prima e della Seleçao poi un mito (ri)fondativo del calcio brasiliano. Impressionante, bellissimo e persino elegante il suo incedere lungo tutta la fascia, era l’ala destra più forte del suo tempo. Dribbling ubriacante, piedi dotati di altissimo pensiero autonomo: era lui l’Aleria do Povo, la gioia del popolo immortalata dal film documentario di Joaquim Pedro de Andrade, del 1962.

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Amato dalla gente comune, più che dalla critica (che gli ha sempre preferito gli altri giganti carioca, a cominciare da Pelé), fu l’incarnazione sportiva del beato inebetito. Garrincha fu il calcio, quello della meraviglia, degli occhi che si inumidiscono per un gesto che raccontare diventa impossibile e si fa più teatro del teatro stesso, quello che degli schemi non sa che farsene. Mané fu lo stolto che insegnò al mondo come stare in campo, volando – letteralmente – all’ala destra. Garrincha fu il San Giuseppe da Copertino del futbol. Perennemente stralunato, non gli avreste dato due lire. Eppure, come il Santo, nacque in un tugurio, fu lo “scemo del villaggio” di Pau Grande come questi lo fu del borgo salentino, ma come lui volava e faceva miracoli, come lui fu messo milioni di volte in discussione, come lui arrivò a convincere e convertire gli scetticoni del Santo Uffizio del calcio. Il figlio prediletto del Sud del Sud dei santi e quello del Sud del Sud dei calciatori, dove la ragione e le alambiccherie si sciolgono nell’assenza, nella meraviglia, nel teatro appunto.

I resti mortali di Mané Garrincha (che se ne andò povero, solo e alcolizzato a Rio de Janeiro nel 1983 che ancora non aveva compiuto nemmanco cinquant’anni) non si trovano più, quelle ossa deformi che ne fecero l’aggraziatissimo e implacabile passerotto che in campo si trasformava in un falco sono scomparse. Per favore, non cercateli e lasciateci credere che Mané, il candido passerotto frustato a morte dalla miseria, sia finalmente asceso al cielo.

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Giovanni Vasso

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