Tarantelle. Trump il bullo, un arci-americano a Taormina

Trump a Taormina
Trump a Taormina

Alto, biondo, eccessivo, incontinente e incontenibile: Donald Trump, anche al G7 di Taormina, si conferma quello che è, il prototipo più fedele che ci sia a un (eventuale) concetto (meglio, stereotipo) dell’arci-americano.

Mentre distribuiva decreti ingiuntivi agli alleati Nato, ha fatto il giro del mondo la manata rifilata al rappresentante del Montenegro. Si ridacchia, ci si diverte. Le pagine satiriche del web l’hanno già resa un meme.  C’è chi rimpiange i bei vecchi tempi, quando i leader del mondo erano educati e si scambiavano inchini. Ma la forza di Donald Trump, che è stata la forza dell’America in tutto il Novecento, è proprio questa: sbattersene allegramente dei paludati rituali, salire in sella e lanciarsi al galoppo a prescindere.

Nel linguaggio verbale e non verbale di Donald Trump ci sono tutte le più autentiche sfumature del sogno americano, molto più sincere di quelle che spererebbero di avere le educande bisbetiche che ambiscono a scrollarsi di dosso l’etichetta di cugine country dell’Europa acculturata.

Per dirla con termini “alti”, Trump è l’osceno che irrompe sulle tavole del palcoscenico del mondo. Osceno in senso tecnico, quasi beniano: ciò che è fuori dalle scene, che salta il protocollo, che rompe gli schemi. Non sente di dover nascondere quello che tutti gli altri farebbero solo in segreto, o quantomeno al nascosto di telecamere e cimici. Per intenderci, un caso come quello di Flavio Insinna, con Donald Trump sarebbe impossibile. E non è poco, perché questa circostanza lo rende praticamente invulnerabile al più banale (e devastante) attacco politico che si sia specializzato negli ultimi anni, quello del “fuorionda”.

Anzi, magari ci si scandalizzerebbe se si scoprisse che, nell’intimità di casa Kushner, Trump regala carezze al nipotino come un nonno Libero qualunque.

Il titolo che più corre sulle testate nazionali e internazionali, a proposito di Taormina, è quello del “bullo” Donald. Eccolo qui, l’arciamericano per eccellenza. Trump ha la presenza scenica ingombrante di un John Wayne irrimediabilmente eterosessuale e farfallone, il sorriso d’uno che è appena uscito dal college e sta facendo il giro del mondo, la zazzera che ricorda, inequivocabilmente, quel mito che è stato Hulk Hogan. In lui vive l’America anni ’80, quella della potenza ritrovata con Reagan (che è suo mentore ideale, suggestione e ispirazione), degli hamburger extralarge con le patatine, delle slot machine a Las Vegas, del patriottismo a stelle e strisce di Rocky e Top Gun, del mito del progresso che si fa elogio dell’abbondanza, della ricerca della felicità a costo di cambiar moglie ogni quarto d’ora, della feroce supponenza di chi ce l’ha fatta ed è nell’invidiabilissima posizione di sbattersene di ciò che pensa la gente. Donald Trump (consacrato in tal senso da anni e anni di militanza pop in tv) è l’incarnazione ideale di uno che si fa strada nella vita e la cui unica preoccupazione è quella di trovare una giustificazione coerente (per quanto folle sia) che copra tutto. Del resto, questa, è una costante della lettura del mondo e della storia secondo i cantori d’Oltre oceano.

Non è un caso se ancora oggi ci ritroviamo a leggere storie di idee stranissime (ne leggereste una trattazione magnifica in Doromizu di Mario Vattani) del tipo che è colpa dei giapponesi se si sono buscati due atomiche. Ricorda molto il fatto del Muro che i messicani dovranno pagarsi da loro, no?

Trump è il luccichìo a cui s’oppongono (e a cui bramano) le vastissime sacche di zona d’ombra, nerissima, che c’ha raccontato – su tutti – Charles Bukowski.

È la più pura essenza di ciò che sono, nella storia del mondo, gli Stati Uniti d’America. Inesorabili innovatori, rivoluzionari e scanzonati cowboys ma (anche) grandissimi parrucconi.

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Giovanni Vasso

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