Ormai non è un mistero che a noi “Doromizu”, il romanzo “giapponese” di Mario Vattani sia piaciuto davvero tanto. I motivi sono tanti e lunghi che meriterebbero ampia e articolata recensione.
Solo che, stavolta, ve la vogliamo risparmiare e, in cambio, vi proponiamo sette citazioni dal libro che, da sole, varrebbero la lettura del libro.
“Me ga deru“.
Non capisco.
“Che vuol dire?”
Horitoshi si avvicina, e disegna i kanji con il dito sul suo palmo.
“Si dice così, Alex, ma è un gioco di parole. Vuol dire tante cose insieme. Me ga deru, nel caso del tuo drago, significa letteralmente “appaiono, escono gli occhi”. Però vuole anche dire “avere fortuna”. E poi “spuntano i boccioli, le gemme” da una pianta, come avviene adesso, a primavera. Ma se lo si dice di te, si vuole intendere che sei cresciuto, che sei diverso. Che sei un’altra persona”.
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A un certo punto ho dovuto chiedere a Frangetta Rossa una penna e un foglio di carta, che da mezz’ora sto riempiendo di nomi di registi e di titoli da vedere. Non solo cinema, anche tetro. Questo mio elenco caotico, nel quale Fujimoto mescola l’avanguardia giapponese, Kara Juro e Terayama Shuji, con i titoli roman porno della Nikkatsu, con Toshiya Fujita, Yasuharu Hasebe, e poi Tatsumi Kumashiro, Seijun Suzuki, e la lista continua ad allungarsi.
“Capito, Alex? Tutto questo è Shinjuku Shinjuku è il fegato di Tokyo, Alex. Qua succede di tutto. Qui c’è puzza di umano, Alex. La senti?”
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Ora che mi trovo qui, di fronte alla maestosa porta torii alta quasi trenta metri che apre il percorso lastricato di pietra fino al santuario, mi sembra assurdo non essere mai stato al Yasukuni Jinjia, il “santuario della pace della nazione”, dove sono custodite le anime di tutti coloro che si sono sacrificati per il Giappone.
Forse perché mi sono lasciato influenzare dai giornalisti del Foreing Correspondent’s Club che lo descrivevano sempre in termini negativi. A sentir i loro racconti, per qualche motivo mi immaginavo un edificio tetro e sconsolato, evitato dalla gente comune, dove si riunivano vecchi reduci di guerra, esaltati e gruppi di nazionalisti aggressivi e vociferanti. Invece, adesso che lo intravedo in fondo all’ampio viale alberato, mi appare come un luogo aperto e molto frequentato, dove passeggiano persone normali, come quelle che si trovano in qualsiasi altro tempio o santuario di Tokyo.
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Aperto i depliant, scorre con il dito la lista dei film e gli orari.
“Pioggia nera. E’ quello su Hiroshima?”
Fa una smorfia.
Tomomi se ne accorge e lo interroga.
“L’hai visto?”
Ichiro inizia ad asciugare un bicchiere. Poi lo posa nella rastrelliera, appena sopra la sua testa.
“Non ricordo. In ogni modo, basta adesso continuare a ripeterci quella storia”.
Gli rispondo.
“Che vuoi dire, master? Quella di Hiroshima è stata una cosa terribile”.
Anche Tomomi interviene, imbronciata.
“Una vigliaccata!”.
Ichiro mantiene la sua serenità, raccogliendo un altro bicchiere bagnato.
“Non dico che non sia così. Dico che ne ho abbastanza di dover sempre chiedere scusa per una cosa che non abbiamo fatto noi. Perché dovremmo disperarci e chiedere scusa? L’abbiamo bombardata noi Hiroshima?”
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Aya dev’essere una maguro, un tonno. Le chiamano così, i giapponesi, quelle ragazze che quando ci vai a letto non si muovono, e restano lì sdraiate.
Ma non è per forza una cosa negativa.
Certe volte può andare bene anche una maguro, proprio perché concede quella distanza necessaria per poter sfogare il proprio lato più sadico, oppure per lasciar scorrere via da tutti i pori, come in un solitario salasso, la tensione, la frustrazione, forse anche qualche goccia di risentimento.
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Ufficiali, soldati, piloti, marinai, ragazzi e ragazze in uniforme, addetti alle comunicazioni radio o alla difesa aerea, giovani che nel disastro generale si sono tutti offerti volontari, firmando per il Tokko Tai, il corpo speciale, perché hanno sentito soffiare il vento divino, il kamikaze. Legati nei loro aerei, con il carburante appena necessario per raggiungere l’obiettivo finale, oppure sott’acqua, sigillati all’interno dei siluri kaiten, o nello scafandro, con una carica di profondità avvitata sulla cima di un’asta.
Non riesco a non pormi questa domanda. Mi chiedo se siano stati veramente loro, ad aver scelto quel cammino. Oppure se abbiano semplicemente avuto il coraggio di seguire quello che era stato tracciato di fronte a loro. E se è cosi, bisognerebbe saper comprendere se un cammino è già tracciato per noi, o se invece occorra modificarlo con una scelta repentina, con l’esercizio della volontà. E anche se così fosse, l’esercizio della volontà serve a rimanere sul proprio cammino, oppure è la chiave per abbandonarlo?
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“Allora, cos’è che non riesci a fare?”
“Cinema, Tomomi san”.
“Heeee! Fai cinema?”
“Ti ho appena detto che non riesco a farlo. Sono qui per fare cinema ma non ci riesco”.
E’ vero. Eppure a un certo punto sembrava possibile. Certo, passando per la televisione. Il video della band di Daisuke era andato bene. Ma poi qui è tutto così lento e così difficile. Non si capisce niente.
Prendo un altro sorso di whisky e acqua.
“Devi continuare. Devi insistere. Bisogno dare il meglio di sè”.