Lavoro. Il mercato globalizzato sfigura il futuro: senza identità non c’è dignità

Disoccupati in coda
Disoccupati in coda

Senza identità né certezze né punti di riferimento. Queste le conseguenze della globalizzazione del mercato che per anni è stata spacciata, a reti unificate, come qualcosa di irreversibile ed irrinunciabile. Risultato: la condanna di una o più generazioni al precariato con devastanti conseguenze economiche tali da incidere sull’assetto sociale delle nostre comunità.
Bugie o nella migliore delle ipotesi banali e semplici errori di valutazione che hanno prodotto i disastri di cui le cronache parlano quasi quotidianamente. Ma pro-global e progressisti liberal non si rassegnano all’idea di aver demolito sogni ed aspirazioni di migliaia di ragazzi e forti della solita presunta superiorità morale vanno ancora cianciando di debito pubblico, tagli, spread e mini jobs con una imbarazzante sicumera. Eppure chi ha dato linfa alle regole dell’attuale sistema economico, plasmandolo ad immagine e somiglianza dei voleri delle multinazionali e della finanza globale, difficilmente potrà avere soluzioni idonee ad uscire dal pantano creato.
Il lavoro non si crea né con gli incentivi – che poi finiscono – né per legge – seppur è molto glamour parlare e riparlare di jobs act come se utilizzando la lingua inglese ne si amplificassero eventuali effetti positivi sul mercato del lavoro. E’ alle fondamenta del pensiero unico di questi ultimi 20 anni che, invece, bisognerebbe avere il coraggio di intervenire innanzitutto ribaltando l’infelice equazione tra lavoro e flessibilità. Potrà sembrare oggi banale affermarlo ma fino a pochi anni fa non lo era: il precariato è uno dei mali se non il principale male della nostra società. Si nutre di voucher, di rinnovi semestrali, di leggi atte alla salvaguardia del capitale in viaggio e non del lavoratore in loco.
Esultare, del resto, per uno zero virgola di Pil in più offre la vera cifra del corto circuito economico e mediatico presente in Italia che non fa i conti con il mondo reale ed è obnubilato da due questioni sovranazionali. La moneta unica in primis: per Stati così diversi con economie ed interessi non omogenei l’euro giova essenzialmente alla Germania, ma quella che per i tedeschi è ricchezza per noi è principalmente austerità. Poi l’altro fenomeno figlio delle volontà liberal e progressiste: l’importazione di forza lavoro a basso costo, attraverso l’immigrazione selvaggia, quale strumento per costituire un permanente esercito industriale di riserva con una costante compressione salariale dove il lavoratore è pedina di scambio del gioco globalizzato.
Negli ultimi decenni la maggioranza silenziosa – tradita da una politica nazionale perlopiù prona ad interessi sovranazionali legati a vincoli burocratici e di bilancio che hanno stretto l’economia reale nella morsa delle recessione e dell’austerità – ha lentamente visto allentarsi tutele e diritti sul lavoro. In particolar modo l’ex ceto medio, ora impoverito, è stanco di sentirsi dire che il proprio governo deve prima di tutto tutelare la stabilità dei mercati e gli impregni presi con l’Europa, dimenticando che un governo avrebbe principalmente un unico primario dovere: fare gli interessi del popolo italiano e non dei mercati o dell’Europa.
Sull’economia si gioca, quindi, anche la credibilità di una reale e concreta proposta sovranista e patriottica che non sia solo fatta di slogan ed atteggiamenti caricaturali ma sia l’ossatura di un programma di governo che faccia ripartire la domanda interna ricreando le condizioni per l’occupazione ed il lavoro, snellendo un sistema elefantiaco ed allo stesso tempo liberando risorse ed eludendo le misure capestri ed i dogmi di Bruxelles.
Non sarà facile ma risulterà inevitabile rompere gli schemi ed offrire nuove e dirompenti misure che allentino da un lato la pressione fiscale e dall’altro lato consentano ai giovani di risalire la china ed avere maggiori possibilità di sostenere il “peso” della costituzione di nuovi nuclei famigliari. Il rischio, neanche tanto velato, è di proseguire nell’opera relativista di disgregazione della società tagliando le nostre radici e le nostre identità e rendendo sempre più sbandate le nostre comunità. Insomma di annullare secoli di storia e civiltà nel frullatore del progressismo che non fa purtroppo rima con lavoro e prosperità, bensì con incertezze ed instabilità.

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Beppe Bruscolotti

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