L’intervista. Valle: “Tomaso Staiti, ribelle gentiluomo che sognò la destra del coraggio”

Da sinistra, Marco Valle, Tomaso Staiti e Riccardo Andriani in un comizio del Msi
Da sinistra, Marco Valle, Tomaso Staiti e Riccardo Andriani in un comizio del Msi

Salutiamo uno degli ultimi e autentici signori della destra italiana. Un visionario lucido, un uomo di mondo che rifuggiva ogni retorica e cercava di vivere sul serio, con coraggio e consapevolezza. E con allegria. Tomaso Staiti di Cuddia se n’è andato. Marco Valle, giornalista e scrittore, ma soprattutto amico del Barone, lo ricorda con questo dialogo su Barbadillo.it

Chi era il barone Tomaso Staiti di Cuddia delle Chiuse?

“Era un grande personaggio, totalmente atipico rispetto ai canoni del personale politico medio missino. L’uomo era indubbiamente un anticonformista, aveva una visione epicurea della vita e un coraggio sia fisico che culturale notevolissimo. Aveva sognato una visione della destra in anticipo, era stufo della destra funeraria. Alla fine uscì dalla scena politica per il suo carattere ruvido, difficile, puntuto. Non riuscì più a mediare, fu un peccato: proprio nella fase di Alleanza Nazionale un personaggio come Staiti sarebbe stato determinante. Aveva dei progetti e la capacità di capire una realtà policentrica e al tempo stesso era di un’onestà assolutamente specchiata. E poi era un uomo che viveva in questo mondo”.

Cosa ne caratterizzò l’impegno politico e culturale a destra?

“I sui punti di riferimento furono Pino Romualdi e Beppe Niccolai. Era consapevole della complessità della storia italiana; nutriva scarsa simpatia per tutto ciò che poteva sembrare reazionario. Ci ha provato a smuovere un ambiente, a farlo uscire dalla nostalgia, dal ritualismo, ad avere una visione laica della vita. Non sopportava visioni confessionali tant’è vero che non ha voluto il funerale religioso. A livello politico era molto critico con determinate manie e contro il populismo. Era convinto – a differenza di Pino Rauti – che il nostro interlocutore principale fossero ceti produttivi e la media borghesia. Su questa linea invitava ad attrezzarsi per dare risposte al mondo produttivo.

Era inoltre convinto che finché non avremo la verità su alcuni passaggi cruciali della nostra storia, come gli anni di piombo e la strategia della tensione, non riusciremo a recuperare una dignità nazionale. Il problema delle stragi e delle eventuali responsabilità di parte del mondo destrista era una cosa che lo angosciava notevolmente. Scrisse numerose lettere, chiarissime: “Chi sa parli”. Se non si fa luce su alcuni passaggi non chiari, anche la destra non può permettersi di governare davvero un Paese”.

Fu anche profeta, non ascoltato, di quanto sarebbe poi accaduto a destra.

“E’ stato un precursore, anche perché girava il mondo e sapeva leggerlo come pochi. Ricordo che davanti a certi nostri atteggiamenti dell’allora Fronte della Gioventù, ci apostrofava come dei “vecchi”. Una volta stavamo lì a parlare del passato e ci sgridò, ci disse che eravamo dei pazzi, dei vecchi appunto. Era un uomo che leggeva e aveva intuito la rivoluzione tecnologica, per esempio. Noi eravamo lì con le macchine da scrivere e lui già vedeva il futuro. E aveva ragione lui, era in anticipo sui tempi. Fu Staiti a portare Alain de Benoist a Milano, per la prima volta. Nel 1979. Staiti ha compreso per tempo la crisi della partitocrazia, ben prima di Tangentopoli. Si rendeva conto che il Msi doveva superarsi. Metteva la Fiamma stilizzata…”.

In anticipo anche sull’idea di Alleanza Nazionale?

“Non stimava Gianfranco Fini. Quando tornò a fare il segretario del Msi, si dimise praticamente cinque minuti dopo la proclamazione. E paradossalmente, erano gli anni in cui Fini faceva il “nostalgico” e lo attaccava chiamandolo moderato. A Fiuggi, come è noto, cambierà tutto. Lì Tomaso Staiti di Cuddia poteva essere al posto di Fini se solo la classe dirigente missina fosse stata lungimirante. E’ stato uno dei possibili segretari, mancati, dopo Almirante”.

Uno degli aspetti più intriganti della personalità di Staiti di Cuddia è stato il suo essere uomo di mondo, cosa che stonava – e non poco – con certi vezzi e ritualità missine, postmissine e della destra in generale.  

“Sì, era allegro, solare. Ironico e affascinante. Con lui mi son divertito davvero, mi ha fatto scoprire un sacco di situazioni. Il suo migliore amico era Gigi Rizzi, il playboy che sedusse Brigitte Bardot. Un signore, non ostentava mai e le signore lo adoravano anche perché era molto charmant. Con lui si andava a giocare, si andava a pranzo allo Skorpion oppure si andava a cenare al Baretto, altro ritrovo in della Milano bene. Susanna Agnelli, che lo adorava, disse di lui che aveva la più bella giacca del parlamento italiano.  Aveva grande charme e una naturale eleganza. Ho iniziato a capire come si vive grazie a lui. Per un ragazzo di 25 anni avere un mentore di quel tipo è una cosa importante, che ricordo con piacere. Al tempo stesso, però, era fragile e venne inghiottito dalla depressione fino al punto di pensare al suicidio, come scrive nella sua autobiografia “Confessioni di un fazioso”. Lo opprimevano, da un lato l’invecchiamento, dall’altro l’angoscia di un mondo che non lo voleva capire”.

Appartiene di diritto al novero dei (tantissimi) “baroni neri”. Come viveva il fatto di essere un aristocratico?

“Era molto fiero e orgoglioso della sua famiglia e del suo casato. Ci teneva molto, però non era per nulla monarchico e non era un vecchio rimbabito. Il suo tipo di aristocrazia assomigliava a quella del principe Borghese, per intenderci, improntata sulla generosità d’animo, sullo stile, sulla classe, sull’educazione e sulla raffinatezza. Non aveva bisogno di ostentare il titolo. Non era un uomo legato ai miti della controrivoluzione o del feudalesimo. Sapeva prendersi in giro, sapeva vivere. E ostentava distacco, questo sì, con chi però non aveva la sua stessa idea di politica, specialmente a destra”.

In che senso?

“La politica la intendeva come una passione pura. Non ci guadagnò nulla e anzi spesso ripeteva di esserci entrato ricco e di esserne uscito povero. Ma sapeva essere feroce con certi parvenu di una certa destra, abbacinata dai luccichii del potere. Di loro diceva che era gente che non aveva mai visto un servizio d’argento, fatale che prima o poi finissero a rubare anche le posate”.

Questa fu un’altra delle profezie di Staiti di Cuddia, insieme a quella – relativamente recente – in cui intravide, per primo “la fase jugoslava” del popolo di destra?

“Conosceva perfettamente i pochi pregi e i moltissimi difetti del personale politico della destra. E di conseguenza non fece fatica a prevedere la balcanizzazione e l’incattivimento dell’ambiente. Ormai si odiano tutti, siamo al pulviscolo. Gente non strutturata che ha perso il biglietto della lotteria e adesso passa il tempo a odiarsi. Anche la briciola diventa importante se la torta si fa sempre più piccola. Si scatena l’ordalia, la rissa. Non si faceva illusioni, Staiti di Cuddia, era assolutamente critico su Berlusconi e il berlusconismo che secondo lui aveva definitivamente corrotto una realtà già non brillante di suo”.

Quale è il suo insegnamento?

“Un insegnamento di vita, continuare ad avere coraggio nelle proprie idee e anche se si è incompresi andare avanti. Qui ci sta la solita frase di Pound. La vera lezione è quella di stare nel mondo, vivere nel mondo, essere parte del mondo e non astrarsi nelle torri d’avorio e i finti elettismi elitarismi. Fare parte del mondo, per leggerlo e solo così si può pensare di cambiarlo. Evitare bolle autoreferenziali e osare, anche a rischio di sbagliare. Lo diceva sempre. Mantenere una curiosità costante ed evitare il piccolo cabotaggio della misera della quotidianità e della piccola politica”.

@barbadilloit

Giovanni Vasso

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