Ritratti. Tutto il resto è Franco Califano

Franco Califano
Franco Califano

Romano di adozione o libico per caso, romantico seduttore, poeta saltimbanco, vestito di malinconia, arde nella notte per non sciupare quei fatali cinque minuti da aggiungere al racconto della vita. A pochi anni dalla scomparsa, un ricordo del cantore di Trastevere

Franco Califano è la percezione della mancanza di un’arte pura che si è disciolta nel pubblico: una passeggiata di delicatezza tra i banchi di un mercato rionale. L’autenticità di una creatura che si è donata senza riserve: alle donne, alla musica, alla poesia. Canta l’animo femminile come colui che lo ha esaminato con la lente di ingrandimento. Bello e certamente dannato, il cuore del fascino in un eros tracimante.

Ogni donna è il momento della bellezza e l’occasione per essere maschi e galanti. Franco nel nome e nell’esistenza, quella trascinata sulle vette anguste di un poeta maledetto. In fuga dalla noia, poiché alla maniera di Oscar Wilde: “è l’unico peccato imperdonabile”. Il resto passa, segue i cicli temporali: la storia nella sua musica è quella dell’animo umano. Uno sguardo, che se hai fortuna di incrociare almeno una volta nella vita, è l’occasione per svettare: la donna tra le donne. Questo il segreto di un vero conquistatore: donare eccezionalità alla femme, il migliore afrodisiaco dell’ardore. Ma si giunge in quella tribuna di grandi amatori, proprio dopo aver amato e attraversato ogni singola sfaccettatura dello spirito umano, spigoli compresi. E lui l’ha spuntata, è salito più volte su quel podio e a un certo punto non è più sceso: con Minuetto, si è guadagnato il diritto del gradino più alto. Poiché nella voce di Mia Martini giace il lamento di una donna innamorata: l’attesa, i no che franano in sì, il corpo che brucia nel desiderio. La solitudine di chi ogni notte aspetta con la porta socchiusa, una donna che disegna tutte le donne, strette in una passione non corrisposta. Segue un cuore in lite con la mente e tutto oscilla nella fragilità di un perpetuo cedimento. E il tempo passa, altre occasioni si perdono nella distrazione di ciò che non accadrà mai. Lei si ubriaca di malinconia dentro la morsa di una convinzione: non conoscere il volto dell’amore vero: nondimeno lo ha di fronte. Questo è Califano, un titano dalla voce roca con la delicatezza nel petto.

Per noi romantici, che usciamo ancora da un film d amore con gli occhi lucidi, com’è possibile guardare il cielo verso la sera senza commuoverci, inevitabile poi perdersi in un tramonto color porpora, non è dicembre che dà i brividi, però far l’amore senza amore no, poeti noi col cuore grosso al tempo stesso sicuri e fragili.

Non basta esser belli per vestire gli abiti di Casanova, bisogna essere dentro l’animo femminile, sostare e sentire. E se anche l’incontro di due soli corpi si dispiegasse nel breve periodo di una notte, il gentiluomo non avvilisce nella fuga, ma rende eterno quell’unico momento. Poiché la donna è un’ode all’amore, che appartenga a una luna o inceda nel per sempre.

Poi torna a cantare la sua libertà, una chitarra come amica per affrontare un destino. Ineluttabilità dell’artista, che vive alla giornata, tra il sorriso di una dama e un muro da abbattere. Un inno alla possibilità di errare liberamente con l’autodeterminazione nelle vene. Tuttavia anche l’ultimo dei seduttori conosce la sofferenza di cuore perché L’Amore è fragile, e solo una regina, sarà quella che scalfirà i suoi ricordi, trincerà le sue notti e smotterà quell’edificio all’apparenza incrollabile. La solitudine porterà a quella vecchia fotografia stinta: immagine di una donna perduta che si è frantumata in tanti cocci. Infine l’amore indimenticabile è sempre il più recente, l’ultimo vissuto; quello diviene la summa di tutti gli altri. Poi si volta pagina, si cambia libro ed è l’inizio di una nuova trepidazione. Ma senza piangere, le lacrime prendono origine da altri moti dell’anima:

Io piango, quanno casco nello sguardo de’ ‘n cane vagabondo perché, ce somijamo in modo assurdo, semo due soli al monno. Me perdo, in quell’occhi senza nome, che cercano padrone, in quella faccia de malinconia, che chiede compagnia

Tutto nel fregio di una malinconia che aleggia sopra ogni storia. Come quest’ultima di un Io non piango, dedicata alla discesa oscura nella trappola dell’alcol di Piero Ciampi. O ancora nel ricordo Di Tenco:

Io ero in un albergo. Lui stava in un altro. Quella sera mi ricordo che rientrai alle tre di notte. Trovai un biglietto in cui cera scritto: “Franco vieni subito. Luigi”. Io corsi all’albergo dove stava lui. Ed era morto.

Voce e note di mestizia, un’ombra velata che aleggia sulle esistenze di un’umanità che vive tenacemente. Esiste nella carne, nel sentimento, nello sbandamento di un vizio e dentro le parole di un Poeta saltimbanco. Un soliloquio, dove il pubblico domanda leggerezza e la figura di un funambolo divertente. Ma un poeta non desidera la volgarità di gazzarre; vuol cantare lo sconforto che lo preme a scrivere a dispetto di tutto e tutti.
E tra un verso di grazia e un’estensione popolare si leva l’ultimo canto di un cigno nero; compimento terreno e infinito pentagramma tra gli Dèi. Simbolo di una romanità mai sciatta, fuori dalle porte dei salottini distinti: è l’assenza febbrile, colui che manca. E piace alla gente che non piace.
Califano è nell’aria della grande madre romana, ma anche nelle curve della penisola da nord a sud, un empatico che senti anche senza comprenderne il dialetto.
È l’incontro tra la pennellata gioiosa di Renoir e il chiaroscuro di Schikaneder; letizia e crepuscolo in un unico vicolo, a Trastevere tra una notte movimentata e un’alba che timidamente prova ad affacciarsi. A Campo de’ fiori, tra il fracasso di vinerie e la tradizione di un mercatino storico. La bellezza nella malinconia che decreta la grandezza del poeta.
Franco, più di Califano: con fierezza, piace e continua a piacere alla gente che non piace.
A noi!

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Isabella Cesarini

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