LivreDeChevet. “La Parola a Ezra Pound” di Miro Renzaglia ovvero tradisco dunque sono

copertina-miro-renzagliaEsiste un valore del tradimento, all’interno del quale il senso muta per rinvigorire il gesto. Si tratta di un andatura al contrario che si dispiega nella forza di restare fedeli solo a se stessi. In tale ambito di paradossale sanità, l’infedeltà non figura come un atto volontario contro qualcuno o qualcosa; all’opposto, rappresenta la più importante discesa nelle contraddizioni umane come forma di tenacia e conoscenza. L’autore, Miro Renzaglia nella sua opera “La parola a Ezra Pound” prende le mosse e l’inchiostro da un’estesa elaborazione del concetto statico del tradimento, giungendo infine a un pensiero dinamico: idea che nello slittamento si fa consapevolezza dell’uomo. L’atto infedele risulta vitale nella misura in cui, l’individuo può adoperarlo e piegarlo alla propria volontà di conoscenza per scendere sempre più a fondo. Esistere interamente, stare al mondo con tutte le contraddizioni che sono pulsione di vita e non di morte. Le antinomie sono balzi in movimento, avverse a ogni forma di fissità.

Nell’attraversare per poi calpestare quel suolo vischioso a limite dell’abiura, l’essere umano, de facto, si muove su un terreno che nelle discordanze, si restituisce in forza e compattezza. Si tradisce per restare fedele. Il poeta Pound figura per Renzaglia, il più poderoso degli incipit: un’entrata in trionfo con tanto di petto gonfio per inabissarsi in una galleria di personaggi che di deferenza fa virtù. La penna si lascia scivolare, non senza un gravoso fardello di emozione, nei meandri, si troppo lucenti, del processo a Ezra Pound. La storia è nota, un verso libero e scomodo ed è subito tradimento del proprio paese di origine: gli Stati Uniti. Nella pienezza di tale “spergiuro”, visse se stesso come uomo completo, mai deformato da compromesso alcuno. La libertà di pensiero rende pazzi agli occhi di chi tacitamente sopporta uno sguardo abbassato, inclinato per storia, sottomissione e interesse.

“Formica solitaria di un distrutto formicaio/Dalle rovine d’Europa ego scriptor… La mia ora è scaduta: tempus tacendi…”

L’autore, Miro Renzaglia muove dal processo per raccogliere in ogni luogo dell’accadere, una serie di ritratti che conferiscono vita ed eternità a un modus vivendi, deprecabile solo in società disumanizzate. Lucio Battisti, che dalla riflessione, non può sottrarsi, vi entra con L’Apparenza di un Don Giovanni chiudendo nella meraviglia di un Hegel. È nel punto di rottura tra il melodico popolare e la sperimentazione ardita ed eterea che scivola nella montagna russa e mediatica del congedo da Mogol. Commiato che non è tradimento, ma vigorosa volontà di seguire se stesso nell’apice della sua opera: il testamento panelliano della sua essenza. Un legame che ha preteso e ottenuto l’ardire di andare oltre, superare la cristallizzata tradizione e farsi vetta nell’ermetismo. Dunque il tradimento è il modo più gravoso e al contempo onesto per avvicinarsi a una fedeltà, che nella identificazione resta al nostro fianco: un’ulteriore scoperta e ancora una seguente scesa dentro l’abisso di noi stessi.

Nell’incedere dei nomi, si avvicendano le modalità del racconto. E al cospetto e a dispetto di Carmelo Bene, l’intervista non può che farsi immaginaria: far parlare un mai nato e postumo in vita, risulta impresa ai limiti del tradimento. L’autore descrive con sapienza quel Bene al quale piaceva farsi intervistare, esclusivamente per galvanizzarsi nella dimostrazione dell’inesistenza della domanda; dunque il vero e incompiuto Carmelo Bene. Una conversazione mai realizzata con colui che non si raffigurò. Il mai nato, si fa mai intervistato e nel luogo di tale inconsistenza, il nulla del vuoto, si erige al tutto di una phoné. Rumore, che rende accessibile, anche il più testardo degli universi impenetrabili. E dentro l’imperscrutabilità di tale suono, finanche l’intervista impossibile accade dove si è capolavori viventi, con o senza tradimenti di sorta. L’aggiunta nell’accaduto che l’opera d’arte si rende completa, proprio in un tratto di infedeltà inseparabile dall’essere umano.

Da Carmelo Bene a Ettore Petrolini, la pagina scorre tutta in un “Me ne fregio”. Sì, proprio così, un orgoglioso fregiarsene di quelle autorevoli antologie che applicano al poeta il più disdicevole dei tradimenti: averlo ignorato. Lui il creatore de “I Salamini” nell’anticipazione di un Beckett o uno Ionesco, il dissipatore e donatore della comunicazione, escluso dall’odore di tanto alloro. Restare all’oscuro e nella polvere di un’estromissione; misconoscere colui, che in un balzo futuristico e dentro un urto di virtuosismi verbali, inventa un linguaggio nuovo e finalmente inimitabile. Forse perché come Bene rifiuta rabbonimenti accademici. Forse perché entrambi non si fanno mai maestri. Ma Petrolini, seppur tradito da un manuale, resta l’imperativo di un’espressione viva anche fuori dalla scena.

Diversa la poesia del maledetto, il bello e dannato nella figura leggendaria del “Re Lucertola”: Jim Morrison. Quasi privo di conoscenza musicale, si resta fedele nella fiducia che accorda al suo tormentato temperamento. Rassicurazione, altresì testimoniata dall’amore incondizionato per complementari toccati dal martirio: Rimbaud e Baudelaire. E nel serpente perpetua la sua fede, si accosta al rettile del “Così parlò Zarathustra” e lo supera: cavalcare il serpente senza ucciderlo nella volontà di un dominio totale.

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Ama i miti la creatura più bella che il rock abbia mai custodito. E nel mito si avvolge la sua morte, sulla scia di una profezia tutta junghiana.

Dalla musica al fumetto, in un guizzo di nero e maschera, tutto nella fotografia di Diabolik. L’illustrazione di una figura al di là del bene e del male. L’uomo, in una perpetua sfida con se stesso, passa nel bosco teorizzato da Ernst Jünger per uscire dalla città metaforica del borghese. Un oltre/legge, che corre con i lupi in un nichilismo di combattimento, teso solo al superamento dei propri limiti. La fedeltà è solo per se stesso e per l’antagonista di sempre, Ginko. Suo unico specchio e rimando finale.

La galleria continua in campi lunghissimi dove si possono scorgere tratti inesplorati di personaggi della politica, della cultura e dell’arte. Lo scrittore, nel capovolgimento di un termine e nell’estensione dello stesso, svela l’uomo dietro la maschera. Quello vero che si realizza nelle contraddizioni umane, inespugnabili a chi al mondo vuole starci per intero. Da tenere sul comodino accanto a un classico, aprire un capitolo a caso e trovarci il Craxi di Sigonella, quello della ormai perduta sovranità nazionale. Per ridestarsi in un Pasolini e accomodarsi in un Montale. La compagnia di coloro che del tradimento fecero fedeltà.

* “La parola a Ezra Pound e altre maschere d’autore” di Miro Renzaglia (euro 13,50; Circolo Proudhon)

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Isabella Cesarini

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