Cultura. La storia di “Giovinezza” inno degli squadristi

Squadristi
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Da canto universitario a inno degli Arditi, da canto degli squadristi (ma anche degli Arditi del Popolo…) alle adunate in piazza del regime. “Giovinezza”, una canzonetta scritta nel 1909 da due studenti universitari, era destinata a diventare la colonna sonora dei successivi trentacinque anni, riscritta, riadattata, strafottente o solenne, fino alla damnatio memoriae nel dopoguerra

Con l’avvento dell’età delle masse alla fine del Settecento anche le canzoni popolari diventarono fondamentali nello svolgimento della storia. La guerra d’Indipendenza americana venne scandita dalle note di «Yankee Doodle» e la rivoluzione francese dal «Ça ira» e dalla «Marsigliese». Durante il Risorgimento – non a caso da alcuni chiamato «rivoluzione italiana» – furono l’Inno di Garibaldi («Si scopron le tombe…»), «Addio mia bella» e i cori di Verdi (all’epoca molto pop e niente affatto paludati) a infiammare gli animi dei patrioti italiani. Nelle vicende politiche e militari una bella canzone – ebbe a dire qualcuno – valeva quanto una battaglia vinta: le masse erano diventate protagoniste attive della storia e s’erano portate appresso il loro bagaglio culturale. Così quando arrivò la prova terribile della Grande Guerra le trincee italiane, piene di soldati d’ogni strato del popolo, risuonarono di canti: malinconici, strafottenti, patriottici o di protesta. Un patrimonio della musica popolare immenso da cui sbucò fuori una canzone destinata a segnare i decenni a venire: «Giovinezza».

In realtà quella canzonetta non era nata nelle trincee. L’autore delle note, il compositore Giuseppe Blanc (1886-1969), ricordò la sorpresa di sentirlo risuonare in una mensa durante la Grande Guerra, cantato dai soldati, con un testo differente da quello originale scritto dal suo amico di goliardia Nino Oxilia (1889-1917). La canzonetta era stata partorita infatti a Torino, alcuni anni prima, durante la Belle Epoque. «Un mattino del maggio 1909, verso mezzogiorno, vennero a casa mia alcuni amici laureandi. Era mezzogiorno, ma io dormivo ancora – ricordò Blanc – Mi obbligarono ad alzarmi, spiegandomi che quella sera stessa ci sarebbe stata, al ristorante Sussambrino in via Po, una cena nella quale i laureandi avrebbero dato l’addio agli studi. Occorreva una canzone: dovevo comporla immediatamente. […] Passammo il pomeriggio insieme, Oxilia ed io, a fare e disfare versi, a tempestare sul piano, e alla sera l’inno era pronto». La canzone ebbe per titolo «Il Commiato» ed ebbe subito un notevole successo fra i giovani goliardi con il suo coinvolgente ritornello: «Giovinezza, giovinezza \ primavera di bellezza \ nella vita e nell’asprezza \ il tuo canto squilla e va». Era quella un’epoca in cui i riti di passaggio avevano ancora un senso: la goliardia, coi suoi riti grotteschi e l’esuberanza adolescenziale, terminava malinconicamente con l’avvento dell’età adulta dopo la laurea. Ma già nell’ultima strofa di Oxilia si percepisce che una nuova, grande prova, un nuovo rito di passaggio è sognato, atteso e perfino auspicato: la guerra.

«Ma se il grido ci giungesse \ dei compagni non redenti \ alla morte sorridenti \ il nemico ci vedrà». Nonostante i tentativi alquanto goffi di alcuni storici e commentatori, come Stefano Pivato e Antonio G. Casanova, di recidere ogni contatto ideale fra «Il Commiato» di Oxilia e Blanc con le successive versioni arditesche e poi fasciste, l’ultima strofa del canto goliardico è la testimonianza che tutte le passioni patriottiche ed eroiche che avrebbero animato il Fascismo erano già in nuce nella gioventù italiana che si apprestava ad affrontare la Grande Guerra. L’inno, inserito da Blanc nella sua operetta «La Festa dei Fiori» (1913), divenne ancor prima celebre fra i militari anche perché il compositore dopo la laurea fu arruolato come tenente di complemento. Nel 1910 Blanc lo eseguì davanti agli Alpini, che lo elessero «Inno degli sciatori», mentre gli studenti torinesi arruolati lo diffondevano fra le altre truppe durante la Guerra di Libia. Lo stesso Nino Oxilia, perfettamente coerente con gli ideali di avventura, generosità e patriottismo della sua poesia, cadde durante la difesa del Grappa, sul Monte Tomba il 18 novembre 1917. «Retorica? Forse tale è apparsa agli amendola [sic] del tempo – scrisse Asvero Gravelli, uno dei principali protagonisti dello squadrismo – Otto anni dopo una granata austriaca squarciava il petto al giovane poeta… Ora egli dorme in un piccolo cimitero dimenticato! Retorica?». Oxilia era partito volontario, era stato impiegato nelle unità cinematografiche al fronte ma aveva chiesto più volte d’essere inviato in reparti sulla linea del fuoco. Fu accontentato, divenendo tenente d’Artiglieria.

Mentre Oxilia cadeva coerente con i versi della sua poesia goliardica, il ritornello di quella stessa poesia aveva preso a vivere di vita propria. Nel 1917 erano nati i reparti d’assalto, gli Arditi, e si erano dati come inno proprio «Giovinezza», con un testo differente. Come detto prima, fu Blanc stesso a raccontare la sorpresa nel sentire le note della sua canzone goliardica risuonare da un baraccamento. La testimonianza è stata riferita da Salvator Gotta (1887-1980), scrittore e poeta che sarà l’autore della versione definitiva dell’inno, quella fascista. Blanc, ufficiale degli Alpini, spinto dalla curiosità entrò nel baraccamento e domandò ai soldati che vi erano raccolti lumi sulla canzone che stavano cantando. Per risposta gli fu allungato un foglio volante con le parole e la musica dell’«Inno degli Arditi». Secondo lo storico Mario Palieri, nel suo volume «Gli arditi», questo inno ha anche una data di nascita precisa: sarebbe stata la prima compagnia del II Battaglione d’Assalto, partito da Sdricca per l’Altopiano della Bainsizza, a cantarlo per la prima volta, il 28 settembre 1917. Il nuovo inno rimescolava i valori celebrati da Oxilia in tempo di pace – amore per le ragazze, irredentismo, culto della gioventù e della «bella morte» – declinandoli nel nuovo sanguinoso clima di guerra. Spariscono le scene da Belle Epoque, i cappelli di paglia e i colletti inamidati degli studenti bohemien. Spariscono anche le signorine «sdegnose» del testo originale amorevolmente tenute «sotto il braccio», per essere sostituite da «una piccola smorfiosa» ghermita senza tanti complimenti. Amore e guerra hanno invertito la loro importanza: «Così si può capire la bella maffia [spacconeria NdR] trionfante delle camicie nere, degli Arditi, che amano le belle donne e le conquistano come trincee, con un gesto eroico» ha scritto Gravelli.

È la guerra, di cui gli Arditi si sentono gli Dei feroci: in una delle tante varianti che circolarono di «Giovinezza» c’è un passo che fa «Sul nemico ci scagliamo \ col pugnale e bombe a mano \ e nel sangue l’affoghiamo!». E quando gli Arditi passarono in gran parte nel nascente Fascismo, portarono con loro nel movimento quella carica di crudeltà, di intransigente ferocia, il culto del comandante e dello spirito di corpo, e, non ultima, un’ondata di umorismo nero che tutta una serie di simbologie, stemmi, gagliardetti, inni avrebbero ampiamente testimoniato, primissimi tra tutti la camicia nera, lo stemma della Morte e, naturalmente, «Giovinezza». Oxilia era morto, e con lui la Belle Epoque. In guerra molti altri improvvisati poeti si sarebbero cimentati con questa canzone oramai divenuta a tutti gli effetti un «canto popolare». Pare che il 20 dicembre 1917 un oscuro poeta romanesco – Romolo Massi – avesse scritto un inno per gli Arditi del 2° Reparto d’Assalto. Un musicista di Civitavecchia, il tenente Angelo Kustermann, si trovò il foglietto volante con le parole di Massi fra le mani e l’adattò al motivo «di una antica canzonetta milanese alpina»: «Giovinezza»… Quando il nuovo inno venne sperimentato al fronte, sul Valbella, il 28 gennaio 1918, gli Arditi espugnarono le postazioni nemiche. In quella operazione Massi venne gravemente ferito alle gambe e Kustermann cadde in combattimento. Dopo la guerra ad attribuirsi però la paternità dell’opera fu un giovanissimo fiorentino, Marcello Manni (1899-1955). Medaglia di bronzo durante la guerra, fu poi tra i fondatori del fascio politico futurista «La Nuova Italia» e direttore del giornale dello squadrismo fiorentino «L’Assalto», uscito con il suo primo numero il 20 aprile del 1919. A lui vengono attribuiti altri canti fascisti del periodo rivoluzionario, «Camicia Nera» e «Fiamme Nere» (sulla cui paternità è lecito porsi qualche dubbio) e, nel 1930, la «Canzone Viola», inno della squadra di calcio Fiorentina. Manni – ragazzo del ’99 – durante il conflitto mondiale militò negli Arditi e con tutta probabilità raccolse e adattò le varie strofe che circolavano tra i suoi camerati, appropriandosi anche della melodia e ignorando che l’autore originale in realtà era Blanc e che altri nel corso del conflitto avevano aggiunto del loro. Nell’immediato dopoguerra, veduto il successo dell’inno, lo affidò come farina del suo sacco ai ciclostile della casa editrice del padre Manno Manni, unendo alla propaganda per i Fasci un certo guadagno di soldi e di fama.

Nel frattempo infatti «Giovinezza» era esplosa come erano esplose le passioni politiche in Italia. I legionari di D’Annunzio a Fiume la cantavano con molti testi differenti, così fecero ovviamente gli squadristi e anche gli Arditi del Popolo (il tentativo socialista di rispondere allo squadrismo fascista) se ne diedero un proprio adattamento. Il tema popolare ebbe decine e decine di testi alternativi, molti dei quali oggi perduti: come ogni canzone popolare ne furono realizzate versioni parodistiche e comiche e ogni fazione in lotta ne fece proprie varianti: secondo Virgilio Savona e Michele Straniero alcune di queste, redatte da un poeta romanesco, tal Spartacus Picenus, divennero anche popolari come canti antifascisti, di cui rimaneva ancora una memoria sbiadita negli anni Sessanta e Settanta, quando gli etnomusicologi giravano l’Italia profonda per raccogliere le ultime vestigia del canto popolare con i nastri magnetici prima che la «mutazione antropologica» denunciata da Pasolini le spazzasse definitivamente via. Delle decine di versioni fasciste, tuttavia, solo quella scritta da Manni ebbe riconosciuta una paternità, per quanto abusiva. Lo squadrista realizzò un testo di tono fascista-rivoluzionario, in cui comparve un’aggiunta al ritornello destinata a restare famosa: «Per Benito Mussolini \ eja eja alalà». Il fiorentino – infervorato dal clima del dopoguerra – infarcì il nuovo testo di terminologie e parole d’ordine rivoluzionarie: la canzone inizia con un «Su compagni…» e prosegue parlando di «avvenire», «lavoro» e «libertà». Era quel «Fascismo di sinistra» che durante il Regime sarebbe stato messo all’angolo dalla normalizzazione e dalla realpolitik di Mussolini.

Realpolitik che fu alla base del seguente capitolo, tutt’altro che rivoluzionario e molto trombonesco, della vicenda di «Giovinezza». Blanc, accortosi del successo popolare della sua opera, minacciò di far causa a Manni per appropriazione indebita. Nel 1920 il padre di Manni cercò un accomodamento con Blanc: avrebbe fatto stampigliare su ogni copia di «Giovinezza» la dicitura «adattamente di G. Gastaldo» (pseudonimo del figlio Marcello) e «Da motivi di G. Blanc». La casa editrice di Manni si impegnava a versare 30 centesimi per ogni copia venduta e un anticipo per mille copie al musicista, mentre i restanti diritti sarebbero stati divisi in parti uguali fra i due. Il contratto tuttavia restò lettera morta, e a quanto risulta dalla denuncia che Blanc fece al Direttorio del PNF, Manni continuò allegramente a spacciare «Giovinezza» come opera del figlio Marcello. A questo punto Blanc adì le vie legali e ottenne l’asseverazione della paternità dell’opera dalla perizia di due importanti musicisti dell’epoca: Ildebrando Pizzetti e Renato Brogi. Il tribunale gli diede ragione e condannò Manni, che tuttavia fece ricorso. Per un’incredibile serie di equivoci, tuttavia, Blanc non si presentò né delegò un avvocato e Manni riuscì a sfangarla. Dopo due anni di inutili trattative con Manni, e suppliche a Mussolini stesso, Blanc decise di portare la propria causa di fronte al Direttorio del Partito Nazionale Fascista. Era il 1924, la Rivoluzione si era compiuta e i tempi erano radicalmente differenti: «Perché il partito di Benito Mussolini non prende nelle Sue mani questa semplicissima questione – scriveva Blanc nel suo esposto – che interessa tutta l’Italia e non la decide Lui rapidamente? Dopo tutto non si tratta di una canzonetta da cafè concerto; si tratta di un Inno che forgiato sui banchi di una Università, e ispirato dalla più pura giovinezza Italiana, è divenuto per volontà di Eroici e Valorosi Combattenti, Inno Nazionale».

Il segretario del PNF Giovanni Marinelli delegò la questione al federale del Fascio fiorentino, Italo Capanni, pregandolo di far cessare «questo doloroso dissidio» tutelando gli interessi di Blanc. Alla fine per mettere a tacere il possibile scandalo il Direttorio del Partito decise d’imperio una soluzione salomonica. Il passato era passato, per il futuro si sarebbe realizzata una nuova versione ufficiale dell’inno, affidandone le parole a Salvator Gotta e restituendo la paternità della musica a Giuseppe Blanc. Il nuovo testo, in contrasto con la versione «di sinistra» di Manni, riassumeva perfettamente il senso della «normalizzazione» voluta da Mussolini nel 1925: era un solenne richiamo all’ordine. Dal punto di vista economico e professionale Blanc ne uscì bene. Come riparazione per la perdita economica subita, il Direttorio si impegnava a diffondere in tutte le scuole e nelle organizzazioni giovanili la sua canzone «Balilla» e gli prometteva di poter celebrare il Decennale del Regime con un inno scritto da lui. Nel 1928 la neonata SIAE riconobbe «Giovinezza» come canzone di importanza capitale per la storia italiana, assieme alla «Leggenda del Piave» di E. A. Mario. Entrambe le opere avevano sostenuto il morale dei soldati e del popolo durante la Grande Guerra ed erano state colonna sonora degli anni rivoluzionari seguiti al conflitto. La SIAE, per interessamento del segretario di Mussolini, Alessandro Chiavolini, stabilì così di versare la bella somma di 30 mila lire d’allora a Blanc e a Mario come compenso forfettario per l’enorme diffusione spontanea avuta dalle loro canzoni, raccolte con le imposte sul repertorio anonimo.

«Giovinezza» divenne quindi un inno nazionale, eseguita sempre assieme alla «Marcia Reale» nelle occasioni ufficiali. Non senza qualche resistenza: celeberrima è rimasta la vicenda di Arturo Toscanini, convertitosi all’antifascismo proprio a causa di «Giovinezza». Il 14 marzo 1931 il celebre direttore rifiutò di aprire un concerto al Comunale di Bologna alla presenza delle autorità politiche cittadine con l’inno fascista perché «avrebbe rovinato l’atmosfera». Dopo un’interminabile trattativa col capriccioso maestro, si trovò una soluzione «all’italiana»: i gerarchi fascisti avrebbero rinunciato alla serata così da evitare l’obbligo istituzionale al bizzoso direttore, ma altre camicie nere meno diplomatiche non accettarono l’insulto e aspettarono Toscanini davanti al teatro. Quando questi scese dall’auto fu accolto da fischi, insulti e da una fascistissima sberla in faccia, sembra ad opera di un giovane Leo Longanesi. La serata saltò, le opposte tifoserie di melomani e squadristi si affrontarono per strada e il giorno dopo i quotidiani fascisti sommersero Toscanini di critiche feroci. Colpito più nel suo smisurato orgoglio che alla mascella, il direttore scrisse una sdegnata lettera a Mussolini, che però evitò di rispondergli. Il tacito «de minimis non curat praetor» non piacque a Toscanini che prese cappello, e com’è noto emigrò negli Stati Uniti atteggiandosi a «perseguitato politico» e abbracciando l’antifascismo fino ad eseguire concerti per raccogliere fondi con cui finanziare navi e aerei che avrebbero bombardato l’Italia…

E quando quelle navi e quegli aerei arrivarono sul serio, nel 1943, l’Italia si spaccò in due e precipitò di nuovo nella guerra civile. Stavolta non con poche centinaia di morti, ma con una ferocia mai vista da secoli nella storia del paese. Anche «Giovinezza» venne travolta. Le memorie dei ragazzi di Salò non sono generose verso questo inno, la cui paludata versione di Salvator Gotta ricordava il regime «imborghesito» che aveva messo «la Rivoluzione in vetrina». Tornarono i testi squadristi, cantati a squarciagola. I versi «sorridendo vo alla morte \ pria che andare al disonor» si attagliavano meglio ai cupi seicento giorni di guerra civile piuttosto che la marcia trionfale del quindicennio precedente. L’ultimo capitolo della vicenda di questa canzonetta popolare destinata a diventare quasi un inno nazionale è inglorioso e racconta più il presente che non la storia: nel 2010, in preparazione alle celebrazioni del 150° dell’Unità d’Italia qualcuno propose di far eseguire a Sanremo tanto «Bella Ciao» quanto «Giovinezza». Ne seguì un’iradiddio su giornali e internet e alla fine la direzione del festival stralciò entrambe le canzoni dal repertorio storico. Se l’Italia non può avere una memoria condivisa, allora che non abbia alcuna memoria. Questa la morale. E chissà quanti si saranno fregati le mani per questa decisione…

(articolo pubblicato sull’ultimo numero di Storia in Rete, acquistabile qui)

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Emanuele Mastrangelo

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