Alla domanda “Dove eri l’11 Settembre?” sappiamo rispondere tutti noi italiani, senza chiedere di che anno si tratti, figuriamoci uno statunitense. Kobe Bryant, in un’intervista al riguardo, racconta che ha saputo delle Torri Gemelle in palestra, dove si stava allenando da qualche ora, da solo, quel mattino.
Tutto bene, tutto normale? Solo finché non si nota che se l’attentato avviene alle 9 circa del mattino di New York, costa est, a Los Angeles, costa ovest, dove Bryant vive e gioca per i Lakers, sono le 6 del mattino; e l’11 Settembre 2001, quando all’inizio dell’NBA manca più di un mese, Kobe alle 6 del mattino si sta allenando, da solo, già da un po’. Quindi non così normale.
E non è stata neppure l’unica volta, perché l’altro artefice di quei Lakers, coach Phil Jackson, racconta del mattino in cui arrivato al campo trova Kobe addormentato in macchina, nel parcheggio.
“Cosa ci fai qui, Kobe?” Risposta: ha già fatto un turno di allenamento per conto suo e mentre aspetta quello con la squadra si fa un pisolino. Phil Jackson con i Lakers vincerà 5 titoli NBA, ma in principio ebbe più di qualche difficoltà a controllare il giovanissimo Kobe. La ragione? Bryant non accettava che l’attore protagonista della squadra fosse Shaquille O’Neal, che d’altronde all’epoca era solo il più forte giocatore di pallacanestro del pianeta. Come osava? Jackson ne aveva già convinto un altro abbastanza forte a mettersi al servizio della squadra: si chiamava Michael Jordan, e insieme avevano vinto 6 titoli NBA pochi anni prima. Convincere Kobe però è stato un po’ più difficile.
No, non è facile gestire un uomo che per quasi vent’anni di NBA ha mostrato una sola preoccupazione: che qualcuno potesse essere più forte di lui. Non è facile neppure essere quest’uomo. Se dobbiamo trovare un pregio a Kobe è che non si è mai saputo accontentare, non si è mai ritenuto soddisfatto. Anche all’apice della sua carriera ha continuato a studiare e lavorare il doppio di tutti gli altri, per migliorarsi costantemente e ossessivamente. Ma se parliamo di difetti, ce ne sono a dozzine. Incompatibile con moltissimi giocatori, accentratore, arrogante, freddo, cinico. I Lakers degli anni 2000 hanno vinto 5 titoli, ma se Kobe fosse stato più diplomatico forse ne avrebbero potuti vincere 6, 7 o 10.
Ma se fosse stato facile, non sarebbe stato Kobe.
L’impressione è che abbia provato a essere il nuovo Michael Jordan, senza esserci riuscito mai. Possiamo fargliene una colpa? Assolutamente no. La cattiveria che ha messo in ogni minuto della sua carriera l’ha avvicinato a MJ più di chiunque altro sul campo e soprattutto per mentalità: ma questo confronto, che Bryant stesso ha voluto e incoraggiato, pone l’asticella troppo in alto per uscirne vincitore. Il suo desiderio costantemente inappagato lo avvicinerebbe così a un eroe romantico – finché non ci accorgiamo che ha vinto 5 titoli NBA, 2 Olimpiadi, un mondiale. La sua fame ci contagia e ci fa dimenticare che stiamo comunque parlando di uno dei giocatori più forti della storia. Una leggenda antipatica, ma pur sempre una leggenda .
Il suo rifiuto di lasciare il campo può ricordare a noi calciofili italici Del Piero o Totti. É diventato troppo ingombrante – lo è sempre stato – ha tenuto in ostaggio in questi ultimi anni i Los Angeles Lakers, la squadra più famosa del pianeta. L’ultima impresa che ha compiuto, fortemente incoraggiato dalla sua dirigenza, è stata allora quella di arrendersi. Accettare di ritirarsi. La notte del 13 Aprile 2016 gioca la sua ultima partita.
“Come ti sentirai, Kobe, quella sera?“, gli hanno chiesto.
“Non lo so“, ha risposto il Black Mamba, “penso sarò emozionato. Forse piangerò” – pausa scenica – “ma non credo.“