Edoardo Bennato, nei primi anni ’80, cantava: «Sono solo canzonette». Possiamo estendere lo stesso concetto allo sport del calcio affermando che sono solo «calci ad un pallone»? Come nel primo caso la musica leggera rappresentava un fenomeno di costume, propaggine non tanto periferica di una visione complessiva della società, quasi di un’antropologia, la stessa cosa può dirsi dello sport più amato d’Europa.
Ciò che è accaduto al calcio europeo, almeno a partire dalla famosa e famigerata “sentenza Bosman”, non è che il riflesso di ciò che si andava profilando e determinando anche in altri settori apparentemente distanti e distinti dallo sport per giungere all’Europa attuale. La “sentenza Bosman” é stata una sorta di valanga che ha travolto ogni forma di resistenza, se vogliamo, ogni “diga” per conservare le dimensioni nazionali del calcio secondo le tradizioni e le scuole calcistiche sorte nelle singole nazioni europee. Quella sentenza, in pratica, autorizzò e consentì il libero mercato dei calciatori all’interno dell’Unione Europea per cui i club europei, specie quelli più in vista, si ritrovarono letteralmente zeppi di calciatori di altre e diverse scuole calcistiche e ciò è quasi sempre avvenuto a danno e detrimento dei vivai nazionali. L’Italia, a differenza di Francia, Germania e Spagna, ha maggiormente subìto gli effetti deleteri di queste politiche. Come, del resto, è avvenuto in altri settori dell’economia.
Il danno maggiore, che si è toccato con mano, solo negli ultimi decenni, è che all’interno di questo mondo la dimensione “culturale” e sportiva è andata sempre più ridimensionandosi a vantaggio di quella economica e aziendale con effetti persino paradossali. Vi ricordate quando nel 1990 migliaia di tifosi napoletani arrivarono a tifare ai mondiali di “Italia ‘90” più per l’Argentina di Maradona che non per l’Italia di Baggio e Schillaci durante la semifinale? Oggi questo fenomeno si è ancor più diffuso e propagato. Moltissimi tifosi sembrano tenere più alle sorti della loro squadra di club che alla Nazionale italiana, specie se essa ha molti calciatori di una squadra di club avversa. Restando al merito squisitamente sportivo in questi anni si è innescato e sviluppato un processo di omologazione dei metodi e dei sistemi calcistici per cui si gioca oramai quasi tutti alla stessa maniera rendendo spesso noiose e stancamente “tattico” il calcio. Sempre più spesso si assiste a partite nelle quali la percentuale dei passaggi all’indietro supera abbondantemente quella dei passaggi in avanti, di fatto vanificando lo scopo ultimo del correre e del calciare la sfera di cuoio.
Questo stato di cose è stato ulteriormente potenziato nella sua negatività con la riforma della Champions League, l’antica “Coppa dei Campioni”. Il torneo è stato di fatto trasformato in un campionato europeo che per forza di cose toglierà spazio, tifo e interesse ai campionati nazionali sottraendo loro una quota di “sovranità calcistica” con ulteriore impoverimento delle identità calcistiche formatesi e sviluppatesi nelle singole scuole e tradizioni pedatorie. Sarà inevitabile infatti, da parte di club definitivamente trasformati in aziende che devono stare in borsa e produrre utili, il ricorso al mercato estero in cerca di campioni affermati, penalizzando i nostri vivai e le nostre scuole calcistiche che, nel passato, hanno sfornato fior di campioni. Se si è avuto modo di osservare: sono persino tramontati i colori dei club (bianconero per la Juve, neroazzurro per l’Inter, rossonero per il Milan ecc.). Quante volte le squadre, persino in casa, indossano maglie di colori astrusi e distanti dai colori identitari che le hanno sempre contraddistinte? E ciò risponde ancora una volta ad una logica aziendale e di business legata all’affare delle sponsorizzazioni.
In un’Europa non dominata da logiche globaliste ed economiciste, ma ancora interessata a preservare la ricchezza delle tradizioni e delle identità nazionali, vera forza di un’idea di Europa alternativa all’attuale, nello sport del calcio, invece che riformare la “Coppa dei Campioni” in una league, cioè in un campionato europeo vero e proprio dei club, si sarebbe potuto pensare ad un campionato intercontinentale delle rappresentative dei singoli continenti. In pratica si poteva introdurre, a latere del campionato del mondo per nazionali, una sorta di torneo internazionale delle rappresentative continentali: quella dell’Europa, quella dell’Africa, delle Americhe e così via di seguito. Avrebbe senz’altro contribuito a rafforzare il sentimento di appartenenza all’Europa senza pesare oltremodo, soffocandole, sulle realtà e le identità calcistiche, e non solo, nazionali.