StoriediCalcio. C’era una volta il derby di Roma prima che il calcio diventasse (solo) un affare

La Curva Sud della Roma

Come cominciare un articolo sul quel desolante spettacolo che è diventato il derby di Roma? Vista l’aria che tira, sarebbe quasi opportuno cominciare con la classica formula con cui si raccontano le storie ai bambini : c’era una volta. C’era una volta il derby di Roma. Sì, forse potremmo cominciarlo così. Che ne dici, o tu che leggi?

C’era una volta il derby di Roma, e chissà se ci sarà ancora. C’era una volta il duello rusticano del popolo romano, così caloroso e intenso che riusciva a travalicare persino i confini nazionali e venire accostato al SuperClasico Boca-River, all’Old Firm di Glasgow, o turbolenti derby di Belgrado e Istanbul. Oggi è semplicemente Roma contro Lazio, 11 maglie giallorosse contro 11 biancocelesti. E intorno il deserto o quasi. Pochi sparuti fedelissimi in uno stadio vuoto, tanto che l’interrogativo di questi giorni è se si riuscirà ad arrivare a quota 25 mila spettatori, visto che finora, tra le due società, sono stati venduti solo 10 mila biglietti, e dei 14 mila abbonati laziali che giocano in casa, non è detto che molti decidano di assistere alla partita. Il perché? ve lo spiegheremo in avanti. Certo è che la decisione di ridurre Roma-Lazio a una partita per pochi intimi non è stata certo facile, per chi in tempi nemmeno troppo lontani polverizzava i biglietti in pochissime ore e creava code alle biglietterie nella speranza di accaparrarsi il posto di qualche abbonato che aveva abdicato, per quella che era  ‘la’ partita, almeno per i romani.

Anche se definirla solamente partita non gli renderebbe giustizia. Nessuna partita, fatta eccezione per quelle destinate a diventare leggenda, blocca in uno stato catatonico una città intera da una settimana prima del fischio d’inizio. Nessuna partita fa correre ansia e nervosismo sulla bocca dello stomaco di migliaia di persone, nessuna partita rischia di lasciare insonne tanta gente. Certo, non ha visto tutti i campioni della stracittadina di Milano, né la lotta di classe che caratterizzava un tempo quello di Torino, anzi spesso Roma-Lazio valeva solamente per la supremazia cittadina in tempi di magra, ma non ha mai avuto niente da invidiare a nessuno di questi.

La rivalità. Comune a tutte le epoche è stata la disputa verbale su chi delle due fosse la squadra della città, e sulle origini. Romani contro “burini” o immigrati, e voli pindarici sulle rispettive paternità, nomi, piazze, firme dai notai a suffragarli, ché tanto poi si finiva sempre al “semo nati prima” contro “eravate ‘na società de podisti”. Nel corso degli anni hanno provato spesso a cambiargli d’abito : Roma-Lazio, suo malgrado, negli anni di piombo si ritrovò ad essere anche lotta politica, casa domenicale dell’extraparlamentarismo nero e rosso che nelle strade si facevano la guerra. Ma sugli spalti non è mai stato un fattore preminente, e poi le carte si sono mischiate ben presto. Qualcuno, poi, ha provato a venderla come popolo contro élite in esercizi di retorica da free climbing. Poi, per più di 10 anni, dalla seconda metà degli anni ’90, al derby romano hanno fatto indossare il vestito di gala e lì è diventato maestoso. Guerreggiava con Milano in fatto di campioni, con formazioni mitiche a combattersi metri e palloni non solo per la supremazia cittadina, ma finalmente anche per lottare per lo scudetto.

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Per quasi dieci anni la Capitale ha visto campioni usare spada e fioretto. Ha visto Gazza Gascoigne e Beppe Signori lottare contro Aldair, ha visto la potenza di Batistuta contro Nesta e Stam e dall’altra parte Crespo, Salas, Vieri e Roberto Mancini sbattere contro il muro eretto da Samuel e Zago. Ha visto il triplice palleggio di Cafù irridere Nedved, l’eleganza di Veron o le punizioni di Mihajlovic, e le galoppate di Candela. Il passo felpato di Emerson e il tacco di Amantino Mancini, Vincenzo Montella scendere in picchiata quattro volte in una sola partita, e la generosità di Marco Delvecchio romano ad honorem seppur nato a Milano.. E poi Totti, che meriterebbe un capitolo a parte. E forse un capoverso a parte se lo merita. Forse dopo ce lo inserisco.

Il tifo. Ma i fuoriclasse che il derby di Roma ha sempre potuto vantare davanti agli occhi del mondo intero, a prescindere da chi giocasse in campo, sono sempre stati due : la Curva Sud e la Curva Nord. Due eccellenze assolute nel mondo delle curve, i due feudi del tifo romano guerreggiavano in maniera a volte violenta a volte guascona portando in battaglia tutto il peso della propria identità fatta di storie lontane, simboli, canti, campioni da ricordare e mezze seghe da dimenticare. E lo spettacolo era meraviglioso : i decibel del tifo alle stelle, sciarpe tese allo spasimo, bandiere che tagliavano il vento, coreografie mozzafiato, striscioni carichi di romanità, dalla pesante ironia fino alla ferocia senza scordare la solidarietà, anche mutuale (vedi Gabriele Sandri). Ma anche gli onnipresenti tafferugli nei pressi dello stadio e le botte da orbi in tribuna Tevere. Tutto, anche il non consentito, pur di sovrastare il nemico di sempre e accompagnare i propri 11 alla vittoria. Nel bene o nel male, era la riproposizione dell’antica Roma dei rioni riproposta in chiave moderna e curvaiola.

Ora, alla stracittadina romana, gli è stato fatto indossare l’abito più brutto, così anonimo e grigio che quasi stenti a riconoscere si tratti dello stesso derby. Oggi è diventata una partita come le altre, come osò dire Zeman una volta, perché le curve hanno deciso di non entrare, proprio come già successo all’andata. E senza le due curve è come se si scendesse in campo già in 10 contro 10.

Poco contano le prestazioni in campo o la contestazione alle rispettive presidenze per i più disparati motivi. Il motivo è la contestazione ad oltranza intrapresa dai due fronti contro il prefetto Gabrielli (con il silenzio assenso delle due dirigenze, incapaci più o meno volutamente di venire incontro ai propri sostenitori) e la sua decisione liberticida di alzare barriere nelle due curve in nome di un’improbabile sicurezza, in barba a qualsiasi norma Uefa che invece va nella direzione opposta, ovvero l’eliminazione delle barriere.

La Curva Nord della Lazio

Le ragioni dei tifosi. Come hanno cercato di spiegare i ragazzi delle curve, l’innalzamento delle barriere ha portato con sé situazioni tragicomiche. A cominciare dall’eliminazione di centinaia di posti, già però regolarmente venduti in sede di rinnovo degli abbonamenti, pur di erigere queste barriere. Posti non rimborsabili, come da contratto. Per i settori popolari, poi, è il sistema informatico ad assegnare automaticamente i posti, non c’è possibilità di scegliere come in tribuna. Risultato? Separati gruppi di amici e padri dai figli piccoli, come se fosse Berlino nel dopoguerra. Impossibile riconciliarsi, se non andando incontro a multe salate e addirittura il daspo. Per non parlare dei posti in cui non si riesce a vedere nulla (e ricordiamo che l’Olimpico, per l’Uefa, dovrebbe essere uno stadio a 5 stelle), o quando piove, ché poi l’ombrello glielo devi lasciare ai tornelli. Insomma o daspo o bronchite, scegli tifoso. Senza parlare delle estenuanti perquisizioni e dell’impossibilità di lasciare auto e moto nei parcheggi dell’Olimpico, dopo l’innalzamento dell’allerta terrorismo.

Trattamenti inaccettabili per andare a vedere uno spettacolo (spesso indecoroso), in impianti discutibili, col rischio di vedere limitata la propria libertà per eccesso di zelo di funzionari ambiziosi, decisi a estirpare la violenza dagli stadi, quando in realtà sono anni che negli impianti non succede quasi più nulla, Roma in testa. E quindi, a malincuore, i tifosi hanno deciso di rinunciare allo stadio, con il derby caso emblematico del silenzioso Aventino delle curve. A dispetto di chi, una volta fatta la frittata, s’indigna del risultato. Come se la gente fosse obbligata ad andare ad assistere ad un evento a tutti i costi, pur avendolo pagato. E anzi, a dispetto di questo, le tifoserie si riuniranno comunque per guardare la partita, ma in due punti diversi della città.

Romanisti a Testaccio. Così i tifosi giallorossi hanno deciso che seguiranno il derby lontano dallo stadio, ma comunque tutti insieme e a modo loro, cantando e sventolando i propri vessilli. Sui muri della città hanno appeso striscioni emblematici “Nati contro il potere, per un amore che non conosce barriere”, e “tutti a Testaccio”, uno dei feudi romanisti che fu teatro del primo campo dei giallorossi, Campo Testaccio per l’appunto. Radiolina, forse la diretta video sugli smartphone, come se fossero in esilio a struggersi per il proprio amore lontano.

Laziali a Tor di Quinto. Stessa decisione presa dai tifosi della Lazio, almeno in 1500 persone, che diserteranno lo stadio e si vedranno al PalaGems di Tor di Quinto, casa della Lazio di calcio a 5, dove verrà installato un maxischermo per permettere ai tifosi di seguire la partita. A niente sono serviti gli appelli dei laziali vip, i quali, in un neonato movimento chiamato “emozione Lazio” capeggiato dal celeberrimo attore Enrico Montesano, hanno invitato il popolo biancazzurro a tornare a riempire lo stadio. Ignorando, chissà se volutamente, i motivi alla base della protesta.

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Gli addii. Ah giusto, Totti. Quasi me ne dimenticavo. Per il numero 10 della Roma potrebbe essere il suo ultimo derby. E non solo per lui, forse anche per Klose, dall’altra parte del Tevere (e si vocifera anche di Candreva, eletto a beniamino dei tifosi biancoblu per cui suonano le sirene straniere). Triste a dirsi, ma l’età avanza inesorabile anche per le leggende. Entrambi, chi più chi molto meno, hanno scritto pagine su pagine della stracittadina. Totti in primis, non foss’altro per i molti anni in più di militanza. Le più disparate esultanze (il selfie sotto la curva, la telecamera, il “v’ho purgato ancora”, i pollici versi), i gol pazzeschi, il nervosismo costante nella partita più sentita, i gesti di fair play (chi lo dimentica lo striscione sotto la nord per Gabbo?). Pagine indelebili, che forse non vedranno la giusta cornice di pubblico per chiudere una lunga storia d’amore.

C’era una volta il derby di Roma, fatto di cori a squarciagola, coreografie splendide, valanghe di striscioni, pippe e campioni. Nel bene e nel male è stato uno degli spettacoli più intensi che il mondo del calcio potesse partorire. Ad oggi si è spostato nelle strade, lasciando un triste deserto a chi non ha voluto sentire ragioni. Non abbiamo idea se resterà ormai solo una storia, o ne saranno scritte ancora pagine memorabili.

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Michele Mannarella

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