Il commento (di M.Tarchi). Perché svelare le manipolazione mediatiche del pensiero unico

La manipolazione che subisco i cittadini dalla dittatura del pensiero unico
La manipolazione che subisco i cittadini dalla dittatura del pensiero unico

Nel gergo degli specialisti di studi sulla comunicazione si chiama framing, che in italiano significa “incorniciamento”. È il processo mediante il quale, come ha scritto uno degli autori che più a fondo lo hanno studiato, “si selezionano alcuni aspetti della realtà percepita, gli si dà importanza in un determinato contenuto informativo, in modo da evidenziare una particolare definizione di un problema, una interpretazione causale, una valutazione morale e/o una proposta di soluzione”[i]. I manuali di comunicazione politica, nel commentarne gli effetti, sottolineano che “I media non sono mere fonti di informazioni, specchi passivi del mondo reale. La conoscenza che trasmettono è profondamente intrisa di significati, emozioni, stimoli, visioni del mondo. […] la realtà mediata è “fabbricata” secondo regole e in risposta ad imperativi che inevitabilmente la segnano e la “informano””[ii]. Grazie all’apposizione/imposizione di un frame, “idea organizzatrice o linea espositiva conduttrice”, i mezzi d’informazione attribuiscono una cornice di senso agli eventi e/o ai temi di cui si occupano, ed è con questo “impacchettamento” delle notizie che i loro utenti si devono confrontare.

Ovviamente, il grado di consapevolezza di questa ordinaria manipolazione dei fatti varia, in ciascuno dei riceventi, sulla base di una serie piuttosto estesa di fattori, che vanno dal livello di istruzione alla conoscenza specifica dell’argomento di cui si parla, dalla profondità ed intensità delle credenze che ci si è costruiti attraverso la formazione ricevuta (dal nucleo familiare, dalle frequentazioni amicali o di lavoro, dalla scuola, da gruppi associativi, da istituzioni religiose, da un partito e così via) alla posizione sociale che si occupa – e l’elenco potrebbe continuare. In altre parole, l’impatto del framing massmediale sul singolo è condizionato dalla solidità di un altro frame, una sorta di filtro interpretativo, che costui si è personalmente costituito nel corso del tempo. Si potrebbe quindi essere tentati di supporre che alle interpretazioni suggerite dai media aderiscano soprattutto, se non solo, soggetti altamente suggestionabili, ma gli studi ci dicono che non è così. La “teoria del prospetto”, largamente accolta in sede scientifica, attribuisce infatti “agli stimoli esterni, quali quelli dei media, e del loro potere di framing, di presentazione, di contestualizzazione, una significativa influenza sulle percezioni, [sulle] preferenze e sulle decisioni delle persone. Semplificando molto il concetto, il modo con cui i media “prospettano” le probabili soluzioni ad un determinato problema condiziona la decisione del soggetto[iii]. L’abusata ma talvolta attendibile Wikipedia chiarisce ulteriormente la questione, parlando del framing come di “un processo inevitabile di influenza selettiva sulla percezione dei significati che un individuo attribuisce a parole o frasi”, sottolineando che esso “definisce la “confezione” di un elemento di retorica in modo da incoraggiare certe interpretazioni e scoraggiarne altre” e aggiungendo che “I mass media o specifici movimenti politici o sociali, oppure determinate organizzazioni, possono stabilire dei frames correlati all’uso dei media stessi”.

Niente di sorprendente, si dirà. Che bisogno c’è di ricorrere ai testi accademici per prendere atto dell’esistenza di sostanziose differenze tra la realtà oggettiva e quella soggettivamente percepita? Qualunque persona sensata non fatica a rendersene conto, quotidianamente. L’obiezione è sensata, a patto di concedere che i riscontri delle indagini empiriche su larga scala condotte nell’ambito delle scienze sono ben più attendibili delle intuizioni e congetture individuali, ma c’è un altro aspetto degli studi sul framing che ne mette in rilievo l’importanza. Questo concetto porta infatti ad ammettere che, soprattutto in politica, i circuiti comunicativi veicolano anche una porzione non secondaria di realtà costruita, fatta di creazione a tavolino di eventi artificiali e di deformazioni e aggiustamenti degli avvenimenti esistenti. Le tecniche sempre più raffinate oggi esistenti e i tempi di propagazione dei flussi informativi ormai ridotti all’infinitesimale consentono di far scomparire, in apparenza, le distanze misurabili tra realtà effettiva e costruita e moltiplicano le occasioni di manipolazione delle notizie.

Le conseguenze di questo dato di fatto sono di portata enorme, eppure continuano ad essere poco comprese, o sottovalutate, dagli attori politici – che spesso le riducono alla necessità di essere più presenti sui palcoscenici massmediali per garantirsi visibilità e popolarità – ma anche da coloro che pure sanno che la vera partita cruciale tra modelli di società e visioni del mondo alternativi si gioca su un terreno metapolitico, che investe la sfera delle credenze soggettive e delle mentalità collettive che ne derivano. Se il significato che viene attribuito ai fatti dipende, in larga parte, dalla cornice di senso entro la quale i media li presentano, è infatti ovvio che è su questa operazione manipolativa e sui suoi contenuti che devono concentrarsi l’attenzione di chi intende contrastarla e la correlativa azione di denuncia e correzione delle distorsioni rilevate. Quasi mezzo secolo fa, nell’epoca in cui parevano dilagare i fenomeni di contestazione dell’ordine vigente, questo modo di comportarsi aveva il nome di controinformazione ed era assurto quasi a una parola d’ordine, la cui applicazione ha condotto, in molti casi, a rovesciare nell’opinione pubblica, medio o lungo termine, la percezione dei fatti che si era imposta (o era stata imposta) nell’immediato. Quella lezione è stata dimenticata dagli ambienti che amano definirsi non conformisti, che hanno preferito concentrarsi sulla ricerca dei veri o presunti “direttori d’orchestra clandestini” nel classico stile complottista con venature paranoidi – non rendendosi conto che al giorno d’oggi la propagazione di realtà deformate o costruite non ha alcun bisogno di poche centrali occulte, potendo contare su una miriade di antenne formalmente autonome ma tutte rispondenti a un’ideologia condivisa – o sperano di poter correggere i punti di vista confezionati dai mezzi d’informazione mainstream attraverso polemiche condotte a posteriori, spesso basate esclusivamente sulla critica di una singola trasmissione, di un singolo conduttore, di una singola testata.

Anche in questo caso, si potrà obiettare che è la carenza di mezzi a dettare i comportamenti, e che quando non si dispone di giornali, reti televisive, radio, è impossibile reagire efficacemente alle altrui campagne informative. E, di nuovo, l’osservazione è fondata ma lacunosa, perché quasi mai le occasioni di presenza nei canali comunicativi di massa che le circostanze hanno offerto ad intellettuali “non allineati” sono state sfruttate per fare controinformazione documentata e opporre argomenti ad argomenti, uscendo dalla genericità verbosa o dall’autoreferenzialità narcisistica. Per non parlare poi del vasto arcipelago di internet, le cui isole “non conformiste” brillano per una radicalità di toni spesso confinante con la sbruffoneria a cui si accompagna un’endemica carenza di argomentazioni razionali.

Eppure, il materiale su cui si potrebbe e si dovrebbe lavorare certo non manca, e invece di perdere tempo in anacronistiche rievocazioni di battaglie perse dei tempi che furono o scrivere l’ennesimo articolo sulle riunioni del Bilderberg Group, del Council of Foreign Relations o della Trilateral Commission sarebbe opportuno e urgente passare quotidianamente al vaglio la massa di notizie e di commenti orientati a ribadire le linee di fondo del pensiero dominante, decrittare le strategie semantiche dei costruttori dell’opinione pubblica e documentare puntualmente, con un’asciutta elencazione di dati e senza lirismi retorici e mozioni degli affetti, la distanza esistente tra la realtà oggettiva e la proiezione virtuale che l’apparato massmediale al servizio dell’ideologia liberale, materialista e cosmopolita ne fornisce senza soluzione di continuità. È questo il metodo che da decenni viene applicato da Alain de Benoist, che vi ha ispirato gran parte della sua produzione intellettuale, dai tempi ormai lontani del saggio sugli Stati Uniti scritto assieme a Giorgio Locchi, pubblicato in Italia con il titolo Il male americano, fino a libri recenti quali Sull’orlo del baratro, La fine della sovranità, I demoni del bene e La menace trasatlantique et autres essais, che sta per uscire in versione italiana. Su queste colonne abbiamo ospitato, in traduzione, centinaia di interventi – di de Benoist, nostri e di molti altri collaboratori – ispirati a questa impostazione controinformativa, augurandoci che la loro circolazione progressivamente si ampliasse, gettando le basi di un’azione a raggio ben più ampio di quello che i nostri minimi mezzi ci consentivano. È onesto riconoscere che quelle aspettative sono andate finora frustrate e che la necessità di impegnarsi in un porta a porta, o in un di mano in mano, di diffusione di idee è stata debolmente sentita da molti di quelle migliaia di lettori che, in quasi quarant’anni di vita, questa rivista ha raccolto. Pigrizie, incomprensioni, egoismi, timidezze, insicurezze hanno contribuito a questa impasse; ne abbiamo già più volte parlato e non è il caso di insistere. Resta il fatto che solo su questo terreno potrà svilupparsi un’azione efficace di contrasto allo spirito del tempo – che è il vero obiettivo a cui continuiamo a tendere.

Gli argomenti di piena attualità inquadrabili in questa prospettiva sono numerosi. Lo abbiamo di recente dimostrato nel caso del “ricatto della commozione” esercitato sul pubblico dai sostenitori di quella omologazione culturale universale di cui l’immigrazione di massa è il veicolo principale. Su questo tema, molto altro resta da dire, e basta scorrere le cronache delle più recenti settimane per rendersene conto.

Si pensi, come primo esempio, all’evoluzione del trattamento linguistico riservato da tv e giornali agli spostamenti di popolazione in atto nell’area del Mediterraneo, e agli scopi che essa si prefigge. Anni fa, come abbiamo già rilevato, si parlava di immigrati clandestini, poi derubricati a irregolari, salvo poi farli diventare “migranti”, senza aggettivazioni ma con un pesante sottinteso affettivo, e quindi “richiedenti asilo” (anche quando non si è affatto certi che all’asilo abbiano diritto); oggi però si preferisce parlare tout court di “disperati”: fa indubbiamente più effetto. Gli sbarchi di costoro si sono trasformati nel gergo dei media in “salvataggi”; meglio però definirli “viaggi della speranza”. Il fenomeno, poi, è inquadrato nello schema – il frame, appunto – della solidarietà; di (ir)responsabilità di chi non si preoccupa dei disagi sociali che l’arrivo di centinaia di migliaia di allogeni provocherà nei contesti di accoglienza (altro termine-totem), guai a parlare. Così come è giudicato inopportuno collegare gli ingressi tramite sbarchi a quelli che avvengono per molte altre vie. I respingimenti vengono presentati come una soluzione non solo moralmente indecorosa, ma anche inefficace: si sa che gli espulsi – solo formalmente tali, perché ci si è limitati a metter loro in mano un foglio, e chi si è visto si è visto – o non escono dai confini o ci rientrano non appena possibile. Il messaggio è chiaro: lo scambio di popolazioni da un continente all’altro è inevitabile, rassegnatevi. Del resto, è la portata stessa del fenomeno che viene resa virtuale: con la concessione della cittadinanza, in tutti i paesi l’entità della componente straniera miracolosamente si riduce e le statistiche (quelle stesse che periodicamente ci fanno notare che la percentuale di atti criminali attribuibili ad immigrati è poco rilevante, guardandosi bene dal dire che è comunque aggiuntiva rispetto a quella degli indigeni), rassicuranti, lo attestano. Ma non ci si ferma qui: se è obbligatorio dare risalto ai “casi di successo” di questi “nuovi cittadini”, è vietato sottolineare quelli di segno opposto; del ruolo degli immigrati nello spaccio di stupefacenti o nel controllo della prostituzione, per limitarci a questi casi, si fa cenno molto meno frequentemente.

L’accusa di xenofobia, o addirittura di razzismo, è sempre pronta ad abbattersi su chi si azzarda a ricordare che le massicce ondate di trasferimenti di popolazione hanno risvolti molto meno rosei di quelli esaltati dalla vulgata massmediale. E i custodi dell’onnipresente e censoria ideologia dei diritti dell’uomo impediscono a priori, con i loro anatemi, di metterne in discussione i presupposti, come il diritto di chiunque viva in un paese toccato da guerre civili di essere accolto come rifugiato, a prescindere da qualsiasi accertamento sul suo effettivo coinvolgimento nelle vicende belliche. Il tabù si estende poi ad altre categorie “protette”. Lo si è visto di recente, in Italia, in due episodi significativi: i rom che hanno investito in macchina un gruppo di persone, uccidendo una donna (immigrata) e la trentina di appartenenti allo stesso gruppo etnico che a Torino, dopo mesi di minacce, hanno devastato un canile della Protezione animali adiacente al loro campo nomadi, contando sul fatto che l’Enpa sarebbe stato costretto alla chiusura e così avrebbero potuto appropriarsi della struttura. Nel primo caso, per limitare l’indignazione si sono condotte inchieste edificanti sulle comunità rom e sul loro senso civico. Nel secondo è scattata la censura: la notizia in un primo momento ripresa dai siti internet di qualche quotidiano è stata o frettolosamente cancellata o derubricata a generici “atti di vandalismo”, ignorando il preciso comunicato dell’Enpa.

Se ci si limitasse ad esercitare la potenza distorsiva del framing in questo campo, sarebbe già grave, ma il fenomeno dilaga e ci dovremo tornare sopra in altre occasioni. Per ora, è inevitabile accennare alle incessanti manipolazioni informative sulle “intenzioni aggressive” russe nei confronti del pacifico Occidente. Dei due pesi e due misure in materia di sanzioni e liste di persone non grate, tutti sappiamo, ma chi ha fatto caso alle poche righe pubblicate il 16 aprile dal “Corriere della Sera” nel contesto di un articolo dedicato a un incontro di calcio svoltosi a Kiev (“nelle ultime 24 ore sono state uccise tre persone in tre agguati diversi: Oles Buzina, protagonista di talk show televisivi, e schierato su posizioni apertamente filorusse, Sergej Sukhobok, titolare di un sito internet e di un piccolo giornale che contrasta la politica del governo e Oleg Kalashnikov, ex deputato del Partito filorusso delle Regioni. Tre oppositori del governo ucraino di Petro Poroshenko, che stasera dovrebbe essere in tribuna”)? A giudicare dalla totale assenza di commenti in altre sedi, nessuno o quasi. Perché non è questa la realtà che conta, nella sua crudezza. Contano solo le sue rappresentazioni virtuali, che non devono informare, ma addomesticare. (editoriale dell’ultimo numero di Diorama Letterario n.325)

[i] Robert M. Entman, Framing: Toward clarification of a fractured paradigm, in “Journal of Communication”, XLII, 4, pag. 52.

[ii] Gianpietro Mazzoleni, La comunicazione politica, il Mulino, Bologna 2004, pag. 224.

[iii] Ivi. Cfr. più ampiamente Paolo Legrenzi e Vittorio Girotto, Psicologia e politica, Raffaello Cortina, Milano 1996.

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Marco Tarchi

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