Cultura. Se la Francia attuale scopre di dover fare i conti con il maresciallo Petain

Petain in un manifesto dei tempi di Vichy
Petain in un manifesto dei tempi di Vichy

Nel 1969 il regista Marcel Ophuls realizza un film-documentario, Le chagrin et la pitié (“La tristezza e la pietà”), sulla città francese di Clermont-Ferrand durante il regime autoritario di Vichy, nato dopo la sconfitta della Francia da parte della Germania nel 1940 e crollato nel 1944, in seguito alle vittorie alleate e al ritiro degli occupanti tedeschi dopo lo sbarco in Normandia. La pellicola diventerà celebre e avrà un effetto dirompente sulla vulgata fino allora dominante, propagandata soprattutto da gollisti e comunisti, secondo cui durante l’occupazione tedesca la maggioranza dei francesi era dalla parte della Resistenza e aspettava solo il momento buono per impegnarsi contro l’invasore nazista. Il film, con interviste a protagonisti e immagini di repertorio, mostra invece come la maggioranza dei francesi – perlomeno quelli di Clermont-Ferrand – fosse “attendista”, cioè pensasse principalmente a risolvere i problemi quotidiani e aspettare la fine della tempesta, e vi fossero due minoranze attive ai margini, quella resistenziale e quella, più corposa, che seguiva il maresciallo Pétain e la sua politica di “Rivoluzione nazionale”, fascisteggiante e di collaborazione con l’occupante tedesco. Una simile rappresentazione della realtà francese di quegli anni durissimi, che sfatava la leggenda dorata di una Francia intrinsecamente resistente, non poteva che irritare l’allora presidente della Repubblica, il generale Charles de Gaulle, che su quella storia aveva costruito la sua carriera e il suo prestigio politici di salvatore della patria. Infatti il Général, che aveva scommesso prima di tutti sulla sconfitta della Germania, non poteva sopportare che si diffondesse l’idea di una Francia inizialmente composta da “40 milioni di pétainisti”, come scrisse Henri Amouroux, per cui rifiutò di mandare il film in onda sulla televisione di Stato Ortf. Al cui presidente, che obiettava che l’opera conteneva “delle verità”, de Gaulle rispose: “Si fa la storia con un’ambizione, non con delle verità. A ogni modo, voglio dare ai francesi dei sogni che li elevino, piuttosto che delle verità che li abbassino”. Il successivo presidente dell’Ortf, Arthur Conte, continuerà a opporsi alla diffusione del documentario, perché “distrugge dei miti di cui i francesi hanno ancora bisogno”. Oggi, la situazione è completamente ribaltata, e i francesi sembrano aver bisogno di miti diversi.

Per più di due decenni, la storia della Francia sotto l’occupazione tedesca è stata letta come quella di una nazione di resistenti in pectore, che tenevano la testa sotto il pelo dell’acqua in attesa del momento buono per insorgere, oppure con le categorie dello “scudo” e della “spada”, in cui la “spada” de Gaulle preparava dall’estero il momento per colpire, mentre lo “scudo” Pétain, rimanendo in patria proteggeva il popolo in attesa della liberazione a venire. Persino il presidente socialista François Mitterrand, negli anni Ottanta, deponeva fiori sulla tomba di Pétain, vincitore della battaglia di Verdun nella prima guerra mondiale (Mitterrand era stato anche giovane funzionario del regime di Vichy, fregiato nel 1943 dell’onorificenza della Francisque – l’ascia bipenne – che si otteneva solo su richiesta). Ormai sarebbe impensabile, e la memoria di Vichy è usata soprattutto come un’arma politica. Chiunque oggi in Francia si opponga, ad esempio, all’immigrazione di massa; all’islamizzazione di strati della società che si stanno comunitarizzando, con propri codici e leggi impliciti; alle “zone di non diritto”, cioè principalmente le grandi banlieues a forte intensità d’immigrazione, sono automaticamente tacciati di Vichysme, cioè di volere tornare al regime del maresciallo Pétain, di essere nostalgici delle “ore più buie della nostra storia” eccetera. Ciò accade con politici, generalmente di destra come Marine Le Pen o Nicolas Sarkozy, o intellettuali e scrittori, come Eric Zemmour e Michel Houellebecq, i cui ultimi libri, Le suicide français e Soumission hanno venduto centinaia di migliaia di copie. Ma anche e soprattutto verso autori un tempo di sinistra, come Régis Debray (ultimo compagno di Che Guevara, consigliere del presidente Mitterrand, poi divenuto “sovranista”. I suoi ultimi pamphlets hanno titoli eloquenti: “Elogio delle frontiere”, “Che cosa rimane dell’Occidente?”) o Michel Onfray (filosofo e divulgatore anticlericale e di sinistra, già sospetto dal suo libro contro Freud e il freudismo, Crépuscule d’une idole, ma risultato del tutto indigeribile dopo i suoi attacchi all’angelismo di una sinistra politica che, secondo lui, ha perduto ogni rapporto con la realtà). Il regime di Vichy è oggi, in Francia, il parametro storico del “male assoluto”, una clava usata per colpire chiunque si opponga al “politicamente corretto” dominante nei media e nel milieu intellettuale parigino.

L’impiego dello “storicamente corretto” ha però i suoi limiti, che dipendono dal giudicare con i valori di oggi scelte che vennero fatte in situazioni di crisi ben diverse dai nostri tempi, e che implicavano valutazioni etiche, morali e tecniche oggi forse non più completamente comprensibili. La dicotomia Vichy-destra, Resistenza-sinistra è stata creata ad arte dopo la guerra dai vincitori, e non regge molto bene di fronte all’analisi storica. Ad esempio, i pieni poteri al maresciallo Pétain furono votati – secondo forma legale e perfettamente costituzionale – dall’ultima assemblea parlamentare della Terza Repubblica. Dopo lo scioglimento del partito comunista – filonazista dopo il patto Molotov-Ribbentrop – rimangono 667 parlamentari, su un totale di 850 deputati e senatori. In 570 approvano la “nuova costituzione dello Stato francese”, che fa di Philippe Pétain il capo dello Stato e del governo, come in ogni regime presidenziale, ad esempio in quello americano (e non in quello attuale francese, in cui capo dello Stato e del governo non necessariamente coincidono e possono anche essere espressione di partiti avversari). La maggioranza dei socialisti e dei radicali di centro sinistra, eletti nel 1936 sulle liste del Fronte Popolare, che andavano dalla sinistra moderata all’estrema sinistra, approvano. 17 parlamentari si astengono, 80 votano no. Questi 80 saranno santificati, nonostante 27 di loro il giorno prima avessero presentato una mozione in cui si chiedeva di mantenere il regime repubblicano, ma si riteneva “indispensabile accordare al maresciallo Pétain, che, in in queste ore gravi incarna così perfettamente le virtù tradizionali francesi, tutti i poteri per realizzare quest’opera di salute pubblica e di pace”. In pratica, i pieni poteri al “dittatore” Pétain sono stati votati dal Parlamento più a sinistra della storia repubblicana francese fino a quel momento. I due principali primi ministri di Pétain (formalmente vice presidenti del Consiglio, di fatto capi del governo) furono Pierre Laval, più volte al governo durante la Terza Repubblica, deputato socialista nel 1914 e nel 1924, e l’ammiraglio François Darlan, considerato un repubblicano di sinistra e uno dei pochi alti ufficiali di marina a non provenire dall’aristocrazia. Certo, gran parte della destra tradizionale fu pétainista, vedendo nel Maréchal l’unico baluardo della Francia sconfitta e il fautore della rinascita nazionale su basi tradizionali, cattoliche e gerarchiche, ma le cose cambiano con le sorti della guerra: Vichy del 1940-42 (quando tedeschi e italiani invadono la zona libera in risposta allo sbarco alleato in Algeria) non è Vichy del 1942-44, in cui i collaborazionisti più radicali accedono a posizioni di potere. E fra questi estremisti molti provengono dalla sinistra o dall’estrema sinistra, in virtù di una prospettiva ideologica compatibile con quella nazista: opposizione al “liberalismo anglosassone”, al “comunismo antinazionale”, all’“ebraismo cosmopolita”, all’economia di mercato, alla democrazia parlamentare eccetera. Jacques Doriot, ex deputato comunista della Seine Saint-Denis, fonda il Parti Populaire Français, dichiaratamente fascista e filotedesco e passa, dal 1941 al 1943, quindici mesi sul fronte sovietico con l’uniforme tedesca. L’ex socialista Marcel Déat, membro della Milizia di Vichy e degli Amici della Waffen-SS, conia il termine collaborationnisme. La lista sarebbe lunga, ma si può chiudere con le delicate parole del 1935 del romanziere filo-Dreyfus e pacifista Alphonse de Chateaubriant, premio Goncourt nel 1911: “Hitler è immensamente buono, Hitler non è un conquistatore, è un edificatore di spiriti, un costruttore di volontà”. Per converso, i primi resistenti francesi furono nazionalisti, spesso di estrema destra: monarchici, maurrassiani, addirittura fascisti (il colonnello de la Rocque, capo delle Croci di fuoco fasciste sarà deportato in Germania nel 1943) o persino membri dell’organizzazione segreta di destra radicale La Cagoule, responsabile dell’assassinio dei fratelli Rosselli, esuli italiani antifascisti. Come disse nel 1987 François de Grossouvre, ex partigiano e consigliere del presidente Mitterrand, “la sinistra ha sfruttato la Resistenza, ma è stata la destra a crearla”. Tant’è vero che i comunisti francesi, dopo aver votato i crediti di guerra nel 1939, subiscono il “contrordine compagni” di Mosca, ormai alleata di Berlino dopo il patto Molotov-Ribbentrop, e diventano il primo partito filohitleriano di Francia: il segretario Maurice Thorez diserta; Jacques Duclos, responsabile del partito dopo la defezione di Thorez, rientra a Parigi, occupata dalle truppe di Hitler, in una vettura diplomatica sovietica, dietro i blindati tedeschi; i negoziati fra i comunisti francesi, la Kommandantur parigina e Otto Abetz, rappresentante di Hitler nella Parigi occupata, mirano alla libera pubblicazione dei giornali comunisti L’Humanité e Ce Soir; L’Humanité, organo del partito comunista, quotidiano ufficialmente clandestino ma tollerato dalle autorità di occupazione, pubblica articoli in cui si legge che “è particolarmente confortante, in questi tempi di disgrazia, vedere numerosi lavoratori parigini intrattenersi amichevolmente con i soldati tedeschi, sia per strada, sia nel bistrot all’angolo. Bravi, compagni! Continuate, anche se ciò non piace a certi borghesi, stupidi quanto nocivi”.

L’attacco tedesco all’Urss nel 1941 spariglia le carte: i comunisti occidentali si mobilitano, per la prima volta dalla guerra di Spagna, contro “l’aggressione fascista”. Il primo attentato antitedesco comunista in Francia è dell’agosto del ’41, cioè poco dopo l’attacco della Germania all’Urss. I comunisti francesi faranno di tutto, dopo la guerra, per seppellire la memoria del loro flirt con Hitler.

Un altro fenomeno che contrasta con l’idea di Vichy come di un incidente reazionario nella storia francese è la continuità amministrativa e legislativa del regime con le successive Quarta e Quinta repubbliche. Soprattutto nel periodo dell’esecutivo Darlan – poi definito come il governo dei tecnocrati, o dei direttori generali – furono promulgate numerose norme, per tre quarti oggi ancora in vigore. Si è parlato e scritto, al riguardo, di “rivoluzione amministrativa”. Alla Liberazione sono stati naturalmente abrogati i provvedimenti antisemiti e repressivi, ma il resto è rimasto in piedi: politica della famiglia, politica agricola, concertazione professionale, comitati d’azienda, salario minimo, ispezione del lavoro, fondo nazionale per la disoccupazione, fondo pensioni eccetera. La carta d’identità è una creazione di Vichy, così come le allocazioni familiari, l’ora legale, la legge sui mestieri paramedici, il codice della strada, il salario unico, il finanziamento ai monumenti storici e agli scavi archeologici, il diritto bancario e delle società (copiati dalla legislazione tedesca), l’omissione di soccorso, l’organizzazione dei musei nazionali, la protezione dei consumatori (Afnor), lo sviluppo dello sport, i vincoli all’urbanesimo selvaggio, i protocolli medicinali.

Durante la Terza Repubblica, vigeva una separazione quasi “di classe” fra i parlamentari, espressione delle comunità locali a cui la legge elettorale permetteva una rappresentanza più importante che alle città, e i tecnici – direttori generali, esperti, dirigenti della pubblica amministrazione – usciti dalle onerose grandes écoles di amministrazione e provenienti dall’alta borghesia o dall’aristocrazia. Durante gli anni Venti e Trenta ha avuto luogo una guerra sotterranea fra gli “avvocati di provincia” politici e il “muro di denaro” dell’alta amministrazione. Vinsero, grazie alla sconfitta e alla conseguente situazione di emergenza, gli alti burocrati, che avevano ormai mano libera, perché in un regime autoritario, con mezzo Paese occupato dal nemico, i decreti non possono più venire contestati e vanificati dalle lobby o dai sindacati. Fra il 1936 e il 1947 il numero degli occupati nel pubblico impiego crebbe del 50 per cento. L’alta amministrazione ha fornito la stragrande maggioranza dei ministri dei governi Pétain, soprattutto sotto l’ammiraglio Darlan. Scrive Robert Paxton nel suo Vichy France del 1972: “Fra il 1871 e il 1909 erano state necessarie più di duecento leggi perché il 15 luglio 1914 si arrivasse ad adottare in Francia l’imposta sui redditi”. Vi sono altri esempi del genere, come le 24 leggi dal 1936 al 1939 per il pensionamento dei lavoratori, poi respinte dal Senato. Pétain emanò un decreto al riguardo nel 1941 e nessuno fiatò. Il sistema dei trasporti parigini in vigore ancora oggi, la Ratp, nasce nel 1942, con una razionalizzazione dei numerosi, inefficienti enti che avevano resistito per tutti gli anni Venti e Trenta. Sempre Paxton: “Nel suo momento culminante, tuttavia, Vichy fu una creazione più di esperti e professionisti che di qualsiasi altro gruppo sociale; e giudicare Vichy vuol dire giudicare l’élite francese”. Frédéric Le Play scrisse che “la riforma sociale era possibile solo attraverso la catastrofe”.

Infine, a proposito di tecnocrazia, le radici dell’Unione europea andrebbero cercate nei piani paneuropei immaginati in Francia sotto l’occupazione tedesca. Molti intellettuali francesi hanno tentato di metabolizzare la sconfitta del 1940 sostenendo che non tutto il male veniva per nuocere: l’Europa unita era, tutto sommato, a portata di mano, anche se imposta dalle armate hitleriane. Questa tesi non era sostenuta solo dai teorici fascisti della Révolution Nationale pétainista, ma anche da socialisti, pacifisti, cattolici e sindacalisti: nel 1938 addirittura Simone Weil considerava come “un vero progresso” l’avvento di un’egemonia tedesca senza guerra, giacché era comunque “nell’ordine delle cose”, mentre il futuro fondatore del progressista Le Monde, Hubert Beuve-Méry, scriveva nel 1939 che il nazionalsocialismo, se inserito in una “nuova sintesi” avrebbe portato “al di là dei sogni più o meno realizzati del Cancelliere Hitler, all’avvento di un’Europa più unita e più giusta”. Dopo la débacle del ’40, le correnti europeiste francesi, nate negli anni ’20 e ’30 intorno al moderato Aristide Briand e alla sua idea di Stati Uniti d’Europa, si riformano intorno al concetto di Europa unita dietro la guida tedesca, contro il liberalismo anglosassone e il comunismo sovietico, nel tentativo di creare un “socialismo dell’abbondanza”, come disse il radicale Jacques Duboin nel ‘42. L’ex ministro del Fronte Popolare Charles Spinasse scrive, nel 1940, che l’integrazione economica continentale sarebbe un modo di “ritrovare Proudhon e scoprire, alla scuola della Germania hitleriana, la sintesi delle sue Contraddizioni Economiche”. Persino Jean Cocteau sostiene nel ’42 che “sarebbe funesto impedire a uno spirito simile [Hitler, ndr] di arrivare alla fine del suo compito, di strangolarlo per strada”.

Le ricette comuni alle diverse scuole di pensiero francesi in materia, che andavano dall’estrema destra alla sinistra non comunista, comprendevano un’economia dirigista; la divisione continentale del lavoro, per razionalizzare i mezzi di produzione, evitare duplicazioni e realizzare economie di scala; l’unità monetaria come strumento tecnico di facilitazione degli scambi. Le riflessioni dei paneuropeisti, fin dagli anni ’30, concordano sul primato dell’economia (la “maestà del reale” davanti a cui si inchineranno le “nazionalità senza corona”, secondo la rivista Europe d’abord); l’obsolescenza del concetto di sovranità nazionale; il dominio dei tecnici e dei giuristi, senza controllo democratico. Scrive Bertrand de Jouvenel: “Fino alla nostra epoca, gli uomini avevano agito come ciechi, mossi dagli istinti, dalle passioni; un egoismo dalla vista corta. Ormai saranno guidati da piloti senza passioni che, dall’alto di un osservatorio, discerneranno e detteranno i comportamenti individuali più conformi all’interesse di tutti e di ciascuno”. A tutto questo si aggiunge, dopo la vittoria della Germania, il riconoscimento di una sorta di dottrina Monroe tedesca sull’Europa e il rigetto dell’Inghilterra e, soprattutto, degli Stati Uniti, che invadono il mondo con “paccottiglia morale e materiale”. L’America è vista, secondo gran parte della pubblicistica dell’epoca, come “l’Inghilterra condensata, moltiplicata in tutta la sua ipocrisia puritana. E’ il mercantilismo elevato e trasfigurato all’altezza e sotto gli aspetti di una religione”. Contro questa religione del profitto e della materia, il pacifista Léon Emery delinea nel 1944 una risposta europea che sembra riecheggiare le polemiche, soprattutto francesi, contro gli Usa in nome dell’“eccezione culturale” e del “capitalismo dal volto umano”: rispetto agli Stati Uniti “le nazioni d’Europa, diventate relativamente piccole e povere, non possono più eccellere che per la qualità della loro cultura e la giustizia della loro organizzazione sociale”.

L’Europa unita – dai nazisti – appare allora come l’incarnazione della “terza via” fra la Russia sovietica e il mondo anglosassone capitalistico-liberale, entrambi materialisti. Il sistema continentale europeo, che molti assimilarono a quello napoleonico, doveva rappresentare l’alternativa al “cancro americano” e al “paradiso infernale” sovietico e, per molti intellettuali ex socialisti, una via intermedia fra gli universi troppo vasti dell’internazionalismo proletario e della finanza internazionale. D’altra parte, soprattutto da parte di sindacalisti e pacifisti di sinistra francesi, si rigettava il concetto di nazione, troppo ristretta e “contro la pace”, in quanto luogo d’incubazione del nazionalismo che aveva generato i massacri delle due guerre mondiali.

Gli intellettuali filohitleriani degli anni dell’occupazione propugnavano insomma un’unione europea che suona assai attuale: economica e tecnocratica, senza controllo democratico, dirigista e contro il liberalismo “materialista” e “inumano”, con gli “anglosassoni” lasciati fuori. Sembrerebbe che i tecnocrati di Bruxelles abbiano mandato a memoria questo passo, se lo avessero letto, della Revue des vivants del 1929: “Un’autorità internazionale ha precisamente questo di comodo, di eccellente, quasi di assoluto: che, trovandosi lontana e, in un certo senso, dissimulata, per la folla, sotto un vago anonimato, sfugge all’influenza degli assoggettati; tutto si fa in nome di un potere che il suo carattere extranazionale rende particolarmente inaccessibile e forte”. (da Storia in Rete, mensile distribuito in tutte le edicole d’Italia)

@barbadilloit

Pierluca Pucci Poppi

Pierluca Pucci Poppi su Barbadillo.it

Exit mobile version