“Trasferisciti in una piccola città, dove le leggi ancora hanno un senso. Questo è un paese per lupi, e tu non sei un lupo“: questo consiglio/minaccia, in chiusura del film è la migliore chiave di lettura di “Sicario”, ultima opera dell’ottimo Denis Villeneuve. Un noir tagliente, secco, che parla della guerra – non più lotta – ai cartelli del narcotraffico messicani, nella quale “fino a che il 20% dei cittadini americani sniffa o fuma, il controllo è il massimo che si può ottenere”. I buoni non possono vincere, perché i buoni non ci sono più: sono andati altrove, sono diventati lupi oppure ne sono stati già divorati.
Che si tratti di una guerra lo si comprende fin dal principio: dopo la spettacolare sequenza iniziale, le operazioni antidroga sono affidate ai Navy Seal (quelli di American Sniper, per intenderci) appena tornati da Afghanistan e Iraq, affiancati solo simbolicamente dagli agenti “civili” federali statunitensi. La tesissima incursione a Juarez ricorda non a caso la Baghdad di Hurt Locker o la Mogadiscio di Black Hawk Down: zone di guerra, questa volta però a pochi metri da quel confine degli Stati Uniti marcato dal muro anti-migranti. Un confine che separa e unisce: Usa e Messico sono mostrati come tessuti vivi, organi distinti, ma comunicanti tramite le arterie pulsanti delle autostrade, le valvole delle dogane, i capillari dei tunnel sotterranei scavati da clandestini e trafficanti. I due paesi comunicano e si contagiano. Il sicario del titolo è l’anticorpo. Sicario era infatti il nome dato agli ebrei zeloti che, ai tempi della conquista romana della Palestina, compivano veri e propri atti di terrorismo assassinando gli invasori. La reazione di un organismo infettato: violenta e autodistruttiva.
Il confine però non è solo quello geografico-politico, ma anche quello etico. L’ottima colonna sonora suggerisce il battito cardiaco sincopato di un animale nascosto nelle viscere della terra, pronto all’attacco: la bestia che si agita nelle interiora di una nazione. L’istinto reattivo di autoconservazione che però, per potersi esprimere, deve passare il confine, infrangere le regole di autocontrollo dell’organismo-nazione stesso. Le procedure della legge americana sono aggirate dai suoi stessi garanti mano a mano che il film progredisce e s’immerge sempre più nella propria dimensione oscura (anche esteticamente) e sotterranea (anche fisicamente). Un Cuore di tenebra/Apocalypse Now svolto lungo un fiume verticale che sgorga nel ventre della notte del deserto messicano. La cronaca spietata di come la giustizia della legge ceda il passo alla necessità e all’urgenza, alla giustizia sommaria, vendicativa. All’istinto.
Le atmosfere e l’ambientazione ci ricordano allora il “Non è un paese per vecchi” dei Cohen, solo che qui la reazione alla brutalità dei trafficanti non è di sgomento e paralisi. Nel “paese per lupi” di Villeneuve, violenza risponde a violenza, legge e criminali scendono allo stesso livello e finiscono per condividere lo stesso spazio notturno e deserto. Le regole scritte sono un intralcio.
Villeneuve però non si ferma alla banale constatazione dei fatti. Chi sono, si chiede e ci chiede, le vittime? La prima risposta sembra paradossale: i corrotti, i ladri, oltre che i migranti e i disperati. Tutti coloro insomma che vivono all’ombra dei lupi o, se si preferisce, di quei “predatori” profetizzati dalla Cameron Diaz di “The Counselor” di Ridley Scott, altro film analogo e in certa misura precursore di Sicario. La risposta è esatta, ma non è completa. Nessuno, in tutto il film, si rivolta ai lupi, se non gli altri lupi. Alle vittime non è concesso il beneficio etico di considerarsi estranei o innocenti: sono viceversa complici in quanto deboli. La debolezza diventa una colpa oggettiva, una condizione insuperabile. Il debole può solo guardare e subire, non importa se accetta o meno. “Guarda e non fare niente”, sono le istruzioni date all’agente dell’FBI protagonista e, con lei, allo spettatore. Siamo relegati in uno spazio passivo, di inutilità: l’accusa a una società sempre più di osservatori e sempre meno di attori. L’inerzia non è più una scusante, è anzi un’aggravante perché concede ancora più spazio ai lupi e al ritorno alla legge del più forte. La riflessione aperta da “Sicario” è così doppia: quale responsabilità c’è in chi guarda, fingendo di non capire? E dopo che hai visto, dopo che hai capito, cosa farai?