Una cosa è certa: per fare cultura occorre la sinergia tra economia e visione. Occorre anche una comunità che oltre a farsi pubblico si assume la responsabilità dell’agire. Il Festival della Comunicazione e del Cinema Archeologico è un esempio. In questi giorni a Licodia Eubea, poco meno di 3mila anime dentro l’area metropolitana di Catania, si svolge dal 9 al 13 ottobre il XIV Festival della Comunicazione e del Cinema Archeologico. Un festival singolare con l’ambizione di comunicare l’importanza del patrimonio culturale e della sua tutela a un pubblico non specializzato e soprattutto giovane.
Storia e modernità è il concept sintetizzato anche nella bella immagine disegnata da Pierluigi Longo: un elmo dorato decorato da foglie scure che richiamano motivi antichi, simboli di vita e di continuità. Il festival ha un ricco programma: quaranta i film in programma (di cui 4 fuori concorso), provenienti da ogni parte del mondo, Fulcro del festival restano le proiezioni cinematografiche – Francia, Italia, Spagna, Portogallo, Polonia, Svizzera, Grecia, Turchia, Bulgaria e persino Cina – tra cui spiccano 24 film che saranno proiettati in prima regionale, 6 in prima nazionale e 4 film in prima assoluta. Al termine della cinque giorni il Festival della Comunicazione e del Cinema archeologico assegnerà tre premi: “Archeoclub d’Italia” al film più gradito dal pubblico; “ArcheoVisiva” assegnato a un film votato dalla giuria internazionale di qualità (composta dal regista Massimo D’Alessandro; da Giulia Iannello, project manager di Magma – mostra di cinema breve; da Maria Turco, funzionaria archeologa della Soprintendenza dei Beni Culturali di Catania e dal regista greco Vasileios Loules) e il premio “Antonino Di Vita” (dedicato al famoso archeologo, nume tutelare del festival) assegnato dal comitato scientifico a un professionista che ha speso la propria attività nella promozione e nella valorizzazione della conoscenza del patrimonio culturale. Spazio per il Teatro della Legalità e lo spin off a Chiaromonte Gulfi con la presenza della regista Costanza Quatriglio, e per incontri e mostre.
Abbiamo incontrato uno dei due direttori artistici del Festival, l’archeologa Alessandra Cilio (nella foto con Lorenzo Daniele)
Perché Licodia Eubea?
“Nel 2012 io e Lorenzo Daniele (il secondo direttore artistico, n.d.r.) durante un sopralluogo a Licodia Eubea per alcuni documentari archeologici, siamo stati contattati dall’associazione Archeoclub locale per organizzare una rassegna di documentari. L’idea ci piacque perché il paese di Licodia è una stratificazione temporale dalla preistoria all’età moderna. La facies di Licodia Eubea presenta la storia del popolo siculo prima dell’arrivo dei Greci grazie alla presenza di una grandissima quantità di materiale rinvenuto nel centro storico e nell’Hinterland. Ad esempio, ospitiamo un incontro con la Soprintendenza di Catania per comunicare i ritrovamenti nelle grotte di Marineo, risalenti al Neolitico che tuttavia presentano stratificazioni temporali fino all’età del bronzo per poi scavallare fino al Medioevo, quando le grotte di origine naturale diventano case ossia testimoniano il cambiamento nel modo di vivere lo spazio in tempi di invasioni. Licodia è una palestra ideale per esercitare il nostro senso del tempo: una successione temporale perfetta – fino al Barocco- in pochissimi metri. Poi, dalla rassegna siamo arrivati al vero e proprio Festival, intendendo per questo non solo la manifestazione in sé con le proiezioni e i premi. Il Festival è l’occasione per cercare di capire quali sono le buone pratiche per una corretta comunicazione legata all’archeologia e al patrimonio culturale che è poi il filo conduttore del nostro lavoro”.
Il patrimonio archeologico e il cinema: come mai questo connubio?
“La questione è: come viene comunicata l’archeologia? Su questo, io in qualità di archeologa e Lorenzo Daniele come regista, ci siamo molto confrontati e in particolare sulla pubblicità del patrimonio culturale nel senso di patrimonio che appartiene a tutti e ci siamo resi conto che non esiste una buona comunicazione. Il cinema, allora, viene in aiuto perché ha una grammatica conosciuta da sempre dal pubblico più ampio. Inoltre, l’archeologia racconta storie di uomini, di donne, di comunità, storie di guerra e storie d’amore esattamente come il cinema. C’è anche da dire che in questi ultimi trent’anni la cinematografia di settore si è evoluta tantissimo e ci sono prodotti interessanti, di compromesso tra il dato scientifico e la creatività. All’interno del nostro festival cerchiamo di coniugare queste due necessità: informare e utilizzare le arti visive per rendere piacevole la comunicazione del patrimonio culturale. Essere arrivati alla quattordicesima edizione dice che abbiamo ragione”.
Nei film selezionati per il Festival il patrimonio archeologico è paesaggio o personaggio?
“Il patrimonio culturale, non solo archeologico, è sempre protagonista. Se agli inizi l’attenzione era focalizzata sugli scavi, col tempo la visione si è ampliata verso l’antropologia culturale e il paesaggio fisico. La manifestazione si sviluppa ogni anno su un tema, al cui interno focalizziamo non soltanto la scelta dei film ma di tutte le attività di corollario: masterclass, conversazioni, attività per le scuole, spettacoli teatrali e concerti. Quest’anno il focus è “Salvare il patrimonio”, discusso anche nella forma del talk su aspetti quali lo sfregio, la distruzione, certe decisioni politiche che gravano sul patrimonio archeologico e pure il lavoro di chi lo difende a partire dalle autorità giudiziarie e dei carabinieri che si occupano di archeomafie”.
A proposito di archeomafia, dal suo punto di vista di operatore del settore e sul territorio quanto è forte l’interesse delle mafie sui beni archeologici?
“Il traffico illecito dei beni artistici e archeologici ha un volume che è terzo a quello della droga e delle armi. Milioni di euro girano attorno alla compravendita di questi beni. La catena parte dal semplice tombarolo ma poi arriva a vertici come le case d’asta o i grandi musei. Con l’aggravio che queste notizie restano appannaggio di chi se ne occupa per mestiere e non arrivano al grande pubblico. Si può parlare di archeomafie, partendo anche dalla figura nota del tombarolo. Lo hanno fatto Sacha Naspini in “Bocca di strega” o Alba Rohrwacher nel film “La chimera”, senza citare “Indiana Jones” o “Tomb Raider”. Il tombarolo porta con sé il mito della scoperta, della ricerca, del pericolo del furto. Anche noi abbiamo pensato che occorreva riflettere sulla percezione pubblica di queste figure e sullo stato delle cose all’interno della tavola rotonda nella giornata di chiusura del festival con ospiti d’eccezione tra cui Serena Raffiotta, a cui si deve il recupero della famosa testa di Barbablù, conservata al museo di Aidone”.
Tra gli artisti c’è Fabrizio Federici, storico dell’arte e ricercatore dell’Università di Firenze, ma anche fenomeno social con il suo profilo Mo(n)stre. Fare diventare virale l’archeologia vuol dire aprirsi sempre più all’IA e alla divulgazione smart. Qual è il futuro dell’archeologia?
“Federici è uno storico dell’arte che ama far dialogare quello che capita nel mondo delle mostre con la contemporaneità sociale o politica con uno sguardo cinico e dissacrante, servendosi dell’arte come uno strumento. L’archeologia guarda sì al passato ma da sempre è proiettata verso il futuro nel senso di dinamica della ricerca. L’archeologia è, infatti, una disciplina a cavallo tra le scienze dure e le scienze umanistiche e si serve delle tecnologie. Il festival offre esperienze immersive con Oculos e AWR per il film o le visite nei siti naturalistici e archeologici. Tutto all’interno di uno spazio antico, il museo Antonino Di Vita. In un posto dove si celebra il passato noi giochiamo col futuro. Non so dove può arrivare l’Intelligenza Artificiale nel confronto con l’archeologia. Semmai ritengo che la questione sia più generale ossia che investa il rapporto tra utile e etico, e allora il problema più che per l’archeologia potrebbe nascere per il racconto dell’archeologia, dato che il cinema si serve dell’IA per le sceneggiature di film o docufilm sull’argomento”.
Il Festival propone quello che si chiama “cinema di nicchia”. La modifica della legge sul Tax credit, anche alla luce delle dichiarazioni del ministro della cultura Giuli sul controllo di contributi a pioggia per film che vedono in pochi, potrà influire su manifestazioni come la vostra?
“Abbiamo usufruito del Tax credit sia come produzione sia indirettamente dai partner del nostro progetto. E devo dire che già negli ultimi anni l’accesso ai contributi è stato limitato. Riconosco che oggi si produce tantissimo cinema e non sempre di qualità anzi spesso si produce cinema solo perché ci sono i contributi. Però, il cinema di nicchia non ne prende: non ha grande circuitazione e vive fondamentalmente di festival. Una nuova legge in tal senso lo tocca poco, perché già poco ha avuto. E’ importante sottolineare che in questi circuiti dei festival vanno le piccole produzioni indipendenti che però realizzano prodotti fantastici. E lo dico non solo da addetta ai lavori ma da amante del cinema. Il fatto che un film che si occupa di archeologia piaccia- lo sappiamo dai feedback degli spettatori- perché è bello sfata un pregiudizio ovvero che film del genere debbano veicolare solo informazioni. Noi da quattordici anni cerchiamo di superare questo e altri pregiudizi su un certo modo di fare arte, cercando di proporre un nuovo modo di guardare la conoscenza del mondo antico”.