Cinema. “Il Caimano del Piave” e i limiti di una nazione nella rassegna di Cabona a Milano

La locandina del film "Il caimano del Piave"
La locandina del film “Il caimano del Piave”

Un secolo fa il Regno d’Italia era al primo solstizio d’estate di guerra: mobilitazione quasi completata, ma quasi dissolta l’illusione che l’aveva determinata: sceglier l’alleanza che permettesse di sedere al tavolo della pace in autunno alle migliori condizioni. Nel mese trascorso dal 24 maggio 1915, passato quasi ovunque all’offensiva su erti crinali, si era presa solo Cortina. Trento e Trieste restavano lontane e i sudditi di lingua italiana di quelle zone continuavano a morire non per i Savoia, ma per gli Asburgo sul fronte orientale, lungo una linea tra Serbia e Baltico (all’incirca la stessa oggi in fiamme tra Macedonia e Ucraina).

Varie decine di migliaia di militari italiani in quei 30 giorni erano già morti o feriti o prigionieri o malati o dispersi. Le perdite austro-ungariche erano inferiori, sia perché quelle truppe erano rimaste sulla difensiva (salvo che su l’altipiano di Asiago), sia perché i confini del 1866 erano sfavorevoli al Regno d’Italia. Il patto di Londra, risalente l’aprile 1915, era ancora segreto nei dettagli e lo sarebbe rimasto fino al 1917, quando la diplomazia segreta avrebbe smesso di esser tale per la scelta di Lenin – appena giunto al potere in Russia – di pubblicare le intese che avevano coinvolto l’Impero zarista. Quello che, nelle attese italiane della primavera 1915, doveva liquidare l’Austria-Ungheria, dandoci di rimbalzo la vittoria quasi gratis, come aveva fatto la Prussia a Sadowa nel 1866.

Ma i nuovi alleati del Regno d’Italia non erano così forti, né i nuovi nemici erano così deboli come si credeva. E il prestito chiesto e ottenuto a Londra, durante le trattative per l’entrata in guerra, si stava rivelando esiguo per finanziare lo sforzo bellico di un Paese che in Europa aveva davanti più Stati di quanti ne avesse dietro. Perfino i francesi, che dal luglio 1914 pagavano Gabriele d’Annunzio e Benito Mussolini perché facessero la propaganda bellicista in Italia, nel giugno 1915 capirono che il vero vantaggio ottenuto con l’entrata in guerra del Regno d’Italia era di poter spostare dalle Alpi le loro truppe, gettandole nel lungo fronte tra la frontiera svizzera e il Mare del Nord, per arginare l’avanzata tedesca in Belgio e nella stessa Francia.

I primi mesi del 1915 avevano dunque visto vano il buon senso di Giovanni Giolitti, maturato peraltro solo dopo il semi-disastro del 1911-12 in Tripolitania, Cirenaica e Fezzan, di cui lui stesso era stato responsabile, nel tentativo di dare la “quarta sponda” agli interessi cattolico-finanziari del Banco di Roma e, simultaneamente, il suffragio universale agli interessi del Partito socialista. L’impresa coloniale cercata, col consenso francese, contro un avversario debole – l’Impero Ottomano – per celebrare degnamente il mezzo secolo d’unità nazionale aveva invece mostrato come il Regno d’Italia fosse ancora fragile. Nemmeno i biglietti da visita di trecento parlamentari neutralisti (larga maggioranza) lasciati nella casa romana di Giolitti fermarono la marcia verso la guerra. Essa peraltro aveva una logica, perché l’Italia non era così periferica, come Portogallo e Grecia, da estraniarsi dal conflitto. Finito il regolamento di conti tra grandi potenze, chiunque avesse vinto avrebbe punito un’Italia neutrale.

Del resto il ritiro delle truppe del Regno d’Italia da ciò che nel maggio-giugno 1915 ormai si chiamava Libia, aveva lasciato anche queste coste in mano ai nemici: Tobruk era presto diventata la base dei sommergibili tedeschi. Nel 1916, con la dichiarazione di guerra del Regno d’Italia anche all’Impero Germanico, ciò avrebbe avuto conseguenze sui rifornimenti italiani, che giungevano essenzialmente dal mare.

Giolitti non si lasciò dunque trascinare né da Antonio Salandra, presidente del Consiglio, né dal suo sodale e ministro degli Esteri, Sidney Sonnino. E ciò urtò Vittorio Emanuele III, che pur era cinico quasi quanto lui e non stimava il suo popolo. Giolitti vedeva un rischio troppo altro nelle guerra, così come il re lo vedeva nella neutralità. Avevano ragione entrambi. Giolitti ebbe ragione prima, a fine 1917, con lo sciopero militare di Caporetto. Il re ebbe ragione dopo, a fine 1918, con l’avanzata di Vittorio Veneto, resa possibile però soprattutto dal disgregarsi della Duplice Monarchia. Gli esiti della guerra vinta furono comunque nefasti anche per la dinastia: dieci anni dopo il trattato di Versailles (1919), il Concordato col Vaticano avrebbe reso la presa di Roma il 20 settembre 1870 un vuoto ricordo; ventisette anni dopo, il Regno d’Italia avrebbe cessato di esistere. Ma l’infrastruttura della nazione (forze armate, magistratura, classe dirigente, codici civili e penali, sistema economico) sarebbero restati quelli, coi loro difetti e i loro pregi (prevalenti, detto col senno di poi).

Proprio questo ruolo – vincitore della guerra e perdente della pace – del Regno d’Italia spiega perché il cinema della neonata Repubblica Italiana, tra nascita dell’Alleanza atlantica e crisi di Trieste (i suoi giorni di vera gloria), lasciassero ampio spazio sia alla simbologia monarchica, sia all’aristocrazia e al suo ruolo patriottico. Intrisa di decadentismo, come in Sensodi Luchino Visconti (1954), o avanguardia della nazione in armi, come ne Il caimano del Piave di Giorgio Bianchi (1950), è la nobiltà che, sul grande schermo, colma le lacune di una borghesia esigua per numero e per dignità. Ciò che non era sfuggito a Dario Niccodemi col suo dramma La nemica e che, mutatis mutandis, non sfuggirà a Giuseppe Tomasi di Lampedusa col suo racconto lungo, Il Gattopardo: lo sviluppo sociale dell’Italia non era proporzionale alle ambizioni.

Comunque restava l’aver tenuto duro del Regno d’Italia in un conflitto dove erano andati in pezzi imperi secolari. E anche i “vincitori” del 1918, come Gran Bretagna e Francia, si erano incamminati proprio allora sulla via del declino, a vantaggio degli Stati Uniti. Insomma l’Italia non era diventata forte come sperava, ma poteva riprendere il cammino lunghissimo tra l’essere un Paese coloniale in Europa (1300-1860) e l’essere un Paese colonialista in Africa (1935-36).

Questa dimensione intermedia emerge dal film Il caimano del Piave, uscito nel 1950, che stasera, (ore 18.30) sarà proiettato a palazzo Cusani di Milano, sede del comando dell’esercito, per la rassegna “Il grigioverde in bianco e nero”, ideata da Maurizio Cabona nel centenario del 1915 e realizzata dalle Forze Armate in collaborazione con la Cineteca del Friuli (sponsor la Elior Ristorazione).

Che cosa distingue le classi dirigenti degli inizi del ‘900 da quelle della metà del ‘900? Ed entrambe da quelle odierne? L’esempio che avevano come riferimento. Chi sapeva di avere un ruolo egemone nell’Italia dei Savoia, doveva pur giustificare i diritti coi doveri. E anche morire per la patria. Le classi dirigenti successive hanno invece avuto come riferimento, essenzialmente, l’arricchimento personale. Che, agli occhi degli esclusi, ha avuto e ha un nome: privilegio. (dal blog dell’autrice su Ilgiornale.it)

@barbadilloit

Luciana Baldrighi

Luciana Baldrighi su Barbadillo.it

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