È una addizione: ciclismo più calcio, Maurizio Sarri, o dell’eccezione, l’allenatore che sale tutte le scale, che dalla seconda categoria l’ha fatta tutta la strada fino alla A – esordio con l’Empoli e stagione fantastica – e ora pare che sia il fortunato vincitore dell’eredità Benitez. Ha cinquantasei anni e a guardare le squadre allenate sembra una inchiesta sulla provincia italiana, la sua carriera, eppure, Sarri è un maestro, certo di minoranza e senza trofei, ma non gli si può dire che non abbia una storia e una lingua calcistica, che non sia un portatore di stupore. È prima di ogni cosa uno che ha creduto a se stesso, ha lasciato il certo per l’incerto, il lavoro in banca, transazioni, finanza interbancaria – Germania, Inghilterra, Lussemburgo (è quella la sua internazionalità, e chi può dire che sia meno facile dell’Europa League?) – per i campi di calcio, ha smesso la giacca e ha indossato la tuta (per questo non la toglie mai): indietro non si torna se non per prendere la rincorsa e crossarla in mezzo. Si è fatto trapezista di schemi e città, girovago paziente dell’Italia minore, ha visto campi di terra e un mucchio di calciatori, partite senza importanza e pareggi che ti tatuano contro la vanità. E di quei ragazzi ne ha salvati tanti, pensate a Maccarone, o Valdifiori – che si porterà dietro –, prendete Croce che prima della sua chiamata si stava autopensionando al Lugano.
Se fosse stato americano sarebbe l’incarnazione di un sogno, la costruzione di una vita, tutta in arrampicata o in apnea, anche se lui, serafico, non lo ammetterà mai. Ha gli occhialoni, la barba incolta, si tocca il naso in conferenza stampa tradendo la timidezza e non ha il linguaggio pettinato della tivù. Ancora si meraviglia se uno come Eto’o va a cercarlo per conoscerlo e stringergli la mano dopo aver visto la sua squadra giocare. Per molti aspetti è una anomalia, di cui tutti si meravigliano, la sua storia regala speranza, non dice che può succedere ad ogni allenatore, ma che – appunto – può succedere. Il calcio italiano è abituato alla precocità, basato sulle investiture, e i legami – che contano più dei moduli –, composto da carriere senza salite, consegnato alle panchine dei calciatori pensanti o che appaiono così, e, quando arriva uno che se l’è faticata la salita, che li ha percorsi tutti i campi, e finalmente si siede in prima classe: mugugna. Quasi che il sogno non facesse parte dello sport, non appartenesse alle probabilità. Ma Sarri ne ha viste troppe per fermarsi. Fuma come Zeman, gioca come Sacchi, ragiona come Del Neri, pensa come Bielsa. È ruvido ma senza perdere classe, duro con chi prova ad etichettarlo, maniacale negli schemi, flessibile con i calciatori: tenendoli alla giusta distanza. Geometria, precisione tattica, nessuno spazio per l’improvvisazione. Tira su squadre dalla faccia tosta in avanti, con i piedi ben piantati dietro – difesa a quattro – e in mezzo, al centro, ha un elastico che si ritrae e allunga, lavorando su armonia e tempi. Conosce la fatica, è figlio di un ciclista – Amerigo correva con Gastone Nencini, vinse molte corse ma poi scelse la gru, in un percorso al contrario rispetto a suo figlio, dall’incerto al certo –; e il ciclismo insegna ad attraversare gli spazi, mentre il calcio li occupa, non è una questione da poco, in comune hanno la misura, mentre lo scarto sta nella leggerezza ed è tutta a favore dello sport con le ruote. Nato a Napoli per caso, mentre il padre lavorava all’Italsider, cresciuto a Figline Valdarno dove oltre a studiare gioca a calcio, in difesa, molto rude ma non così scarso da non essere provinato da Torino e Fiorentina, lì incontra Kurt Hamrin che gli passa la velocità mentale, da pugile. Il resto – del lavoro di convinzione e riflessione – lo hanno fatto i pezzi di Gianni Brera – l’ultimo grande filosofo italiano –, invece, per le radici e una certa idea di vita ci hanno pensato Bukowski e Fante. Sarri è un pragmatico, conosce la sconfitta e questo lo aiuta a vincere senza troppi lamenti, si è permesso molti lussi ad Empoli, ne ha fatto uno dei pochi veri laboratori calcistici dove i ragazzi possono crescere sbagliando senza la pressione e la paura. È un provinciale e quindi uno abituato a qualunque situazione, uno che si tira dietro la cultura dei bar e quella partigiana, la piazza con l’esercizio del rispetto e una sola faccia, ma non è uno fuori dal tempo presente, anzi. Ancora una volta si mostra come una addizione di cose lontane tra loro, ancora una volta è una eccezione, rispetto al panorama calcistico italiano, un allenatore dispari, che ha studiato e studia; credo che sia stato questo ad affascinare Aurelio De Laurentiis, aveva un Bielsa a pochi chilometri ed ha provato a prenderlo, dopo aver cercato quello vero e i suoi allievi/cloni. Sarri appare come un artigiano, ma non come uno sprovveduto, per questo persino Berlusconi c’ha fatto un pensiero, cercando il nuovo Sacchi per ricostruire il suo Milan. A me fa pensare a Gesualdo Bufalino, scrittore siciliano, che arrivò tardi alla pubblicazione, dopo enormi pressioni di Leonardo Sciascia ed Elvira Sellerio, tra lo scetticismo, si guadagnò premi e lettori, consegnando romanzi, saggi e poesie dal taglio dispari. Proprio come Bufalino, Sarri è uno difficile da convincere: non l’ha convinto il regolamento della Coppa Italia, non lo convince la poca democrazia del calcio italiano e la sudditanza alle grandi squadre, non lo convince il racconto mediatico del calcio di oggi e nemmeno la distribuzione degli introiti, quando parla così sembra Landini – che lui voterebbe, tra l’altro. Viene fuori il ritratto di uno che privilegia il modulo rispetto al fuoriclasse, senza mai perdere di vista l’uomo. È il calcio figlio dell’umanesimo, che generale reverenziale curiosità ma anche dubbi, perché troppo distante da quello imperante. Ma è pure il contrario del cinismo esasperante che regala allenatori da una stagione. Sarri ha il giusto spirito opportunistico, e va forte in salita, per soffrire meno, come raccontava Marco Pantani, in un paradosso.