L’intervento.La guerra civile 1943-45, i morti (forse) già riappacificati e l’Italia dei veleni

Repubblica_di_Salx_Brigata-nera.jpg_1603136728Viviamo in un momento storico difficile: allo spettro della crisi politica ed economica si affianca l’ombra scura della crisi di valori che da tempo ha travolto noi italiani, noi europei, noi occidentali. Molte sono le certezze, le ambizioni, altrettante le ansie, le angosce che questi giorni ci pongono…

Un governo di sinistra ma anche di destra e forse di niente, l’ISIS, la guerra in Ucraina, e chissà ancora dove nel terzo mondo, le bombe in Palestina, i Masai del Kenya che vengono scacciati dai loro terreni per far spazio ad una riserva di caccia per qualche emiro arabo, sotto pagamento, ma questo a chi interessa? Tutto come sempre, insomma, perché preoccuparsi? Il campionato, San Remo, il calippo della Pascale e il gelato della Madia certo risvegliano molto di più il nostro interesse che non le riflessioni sui “massimi sistemi”. Nonostante le celebrazioni, i discorsi, gli amarcord di chi c’era, sembra giusto, scontato che il passato rimanga tale e che gli si voltino finalmente le spalle.

70 anni fa, il 25 aprile 1945, con l’entrata dei capi del CLN a Milano si poneva fine alla guerra civile e, pochi giorni più tardi, al termine di una tragica farsa ai limiti del grottesco, si spegneva l’ultimo barlume di ciò che era stato il Fascismo. Un passato difficile col quale fare i conti, tanto che, al di là delle reciproche demonizzazioni e delle canonizzazioni autoreferenziali, gran poco è stato fatto. Forse perché in fondo è trascorso ancora poco tempo, molti di quei giovani che scelsero di andare in montagna o di vestire nuovamente l’orbace, oggi vecchi, sono ancora in vita, e si è preferito accettare una vulgata piuttosto che un’altra, o forse perché al giorno d’oggi, come scriveva Carlo Mazzantiniè praticamente impossibile riuscire a immergersi in quella particolare atmosfera fatta di sensazioni, di impulsi, di motivazioni, di emozioni che messi tutti quanti insieme portano a compiere una scelta[1]” , di qualunque scelta si fosse trattata.

Il 25 aprile. La liberazione. Città vestite di fiori e di tricolori, a volte anche di rosso. Libertà. Libertà dall’invasore tedesco e dalle sue rappresaglie, libertà da un regime oppressivo, ma forse soprattutto speranza, speranza di trovare la forza, la volontà di risollevarsi e decidere il proprio destino, speranza di costruire un’Italia migliore. Che ne è stato? Che ne è stato degli ideali che portarono la resistenza alla vittoria? Non crediamo che Parri e gli altri lottassero per un’Italia stretta tra le spire della globalizzazione e del libero mercato più sfrenato, né per il qualunquismo. Ciò che sarebbe potuto venire di buono è stato vanificato, non restano che parole d’ordine stantie e qualche appello, a mio parere ormai puramente retorico e antistorico, alla “resistenza” e ad un “antifascismo” che non ha più ragion d’essere (il Fascismo-regime morì nel ’43, e il fascismo-movimento crepò ancora prima di veder la luce… E poi, diciamocelo, oggi i problemi sono ben altri). Dall’altro canto, da ciò che resta “dell’altra parte”, manca una presa di coscienza onesta, senza nostalgie né ipocriti rinnegamenti: solo un po’ di chiarezza, un po’ di umiltà nel riconoscere gli sbagli e magari un’opera seria di revisione e contestualizzazione.

La strada per la Libertà fu segnata da molte vite spezzate, dai morti per un’idea spesso vissuta con onestà: morti per il Re e morti per la bandiera rossa, morti “per l’onore d’Italia”, come si diceva allora, morti per un paese libero e democratico, e poi morti, morti e basta, forse senza neanche conoscerne la ragione. Morti. Non spetta a noi giudicarli, né pontificare su quali abbiano dato la vita per la causa intrinsecamente giusta e quali invece per quella sbagliata, e nemmeno rivendicare per gli uni questo o quello. Con questo non abbiamo intenzione di dimenticare gli eccidi, i crimini, le nefandezze che tutti compirono (e qui si potrebbe obbiettare: sì, è vero, però alcuni erano dalla parte del bene, gli altri no. Sarà anche così: di fronte al tribunale della storia due i pesi due le misure, ma di fronte a quello di Dio non è così), né che tra i tanti che crederono davvero, da una parte e dall’altra, ci furono esaltati, ci furono fanatici ed opportunisti. Tutto questo è vero: la frattura che derivò da quei giorni forse è insanabile, nonostante gli ipocriti tentativi di una certa “riconciliazione nazionale” che si sono visti negli ultimi anni, più volti al giustificare l’entrata in scena (legittima) di una certa parte politica che ad un esame onesto ed oculato dei fatti storici.

Per quanto sia difficile, osserviamo la questione non da una prospettiva storica o politica ma umana ed esistenziale. L’8 settembre, che Ernesto Galli della Loggia, non certo un simpatizzante di destra, definì “la morte della patria”, rappresentò per tanti giovani che il regime, l’educazione, la famiglia ed una forma mentis che oggi non c’è più, avevano coinvolto a pieno nella guerra, nella certezza della vittoria, nella fedeltà incrollabile ed indissolubile “al Re e alla Patria”, un evento di proporzioni terrificanti. Essi si trovarono di colpo abbandonati, soli, traditi, mentre tutto, ogni certezza crollava loro intorno. Non fu così per chi sul regime aveva lucrato, per chi non perse nulla e guadagnò tutto, né per i fanatici del Duce né per coloro che da sempre erano stati sempre coerentemente antifascisti: tutti costoro sapevano bene cosa fare e quale era il loro posto.

E i ragazzi, i giovani? Alcuni scelsero la lotta all’invasore nazista e a coloro che avevano condotto l’Italia alla catastrofe; altri reagirono diversamente, ritennero che fosse coerente continuare la guerra così come era stata iniziata e, soprattutto, vendicare quello che ai loro occhi rappresentava il tradimento, la vergogna. Due reazioni diverse, completamente differenti… Eppure… Eppure (e qui qualcuno griderà alla bestemmia) sorelle. Sì, sorelle, così come “figli di stronza” e “imboscati” erano fratelli, frutti di una stessa educazione, degli stessi miti infranti. Una tragedia immane della quale questi ragazzi, questi poveri ragazzi, furono protagonisti. Tutti loro, se in buona fede, partigiani e repubblichini, si caricarono il peso degli errori dei loro padri e dei loro capi, pagarono per essi. Difficile vedere in chi pensava di compiere il bene, un male assoluto, in nessuno di loro. Erano solo dei ragazzi animati dai migliori sentimenti di patria, generosità, libertà, e dal rifiuto di una storia sbagliata, ingannatrice ai loro occhi. E sono loro che vogliamo considerare, loro che fecero e pagarono la storia, non chi la decise. Lottavano per tutti per un’Italia diversa. Migliore? Peggiore? Diversa, molto, molto differente da quella che abbiamo di fronte oggi. Vittime di una guerra, vittime di un regime, di un passato che non perdona, i morti sono i veri vinti dalla storia. E forse, loro, si sono già riappacificati.

[1] Carlo Mazzantini, L’ultimo repubblichino. Sessant’anni son passati, Marsilio Editore, 2005

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Niccolò Nobile

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