L’ultima verità rimasta al nostro calcio: il bambino che scriveva lettere a Karl Lennart Skoglund il suo strano Babbo Natale, il ragazzo uscito da Charles Dickens che aveva solo se stesso, il meccanico di Leggiuno che divenne l’attaccante orgoglio dei sardi – “arrogadottu”, il rompi tutto – e poi quello dell’Italia – Gianni Brera lo battezzò: Rombo di Tuono, e fu come avere un’altra vita –, l’uomo con gli occhiali scuri e la giacca poggiata sulle spalle: compie 70 anni.
Gigi Riva, era ed è, la nostra versione artigianale di Superman, dal pallone alla vita. Potente, veloce, arrivava in area sempre al momento giusto e invece di sventare un crimine si trattava di mettere il pallone in porta. Gigi Riva prima ancora dell’uomo gol – ne ha segnati 35 con la maglia della nazionale, è ancora record – è stato una idea, che si potesse giocare lontano dalle grandi e vincere, che si potesse rimanere il disparte e non essere dimenticato, che si potesse segnare a ripetizione senza prevaricare, che ci si potesse spezzare due volte le gambe – contro Portogallo (perone) e Austria (tibia e perone) – e tornare quello di sempre. Ditemi se questo è un uomo o piuttosto un supereroe. A rivedere i suoi gol, saltano agli occhi la modernità e la tecnica, segnava di testa e in rovesciata, e la sua arma era il sinistro. O almeno io lo vedo così, l’ho sempre visto così, con il suo costume da supereroe, la G enorme sul petto gonfio e la cicca fumante fra le labbra, ovvio. E che a sentirne parlare da bambino uno doveva per forza vederlo come un fumetto, un eroe, tutto forza, svolazzi, impegno e coerenza, ecco forse è questo il punto: la sua ingenua, pazzesca, caparbia voglia di non cambiare: maglia, città, posizione. Il suo mondo fantastico, il calcio diverso, Scopigno che diceva:«lanciate il pallone allavivailparroco». E poi la sa voce, il suo sguardo, e lui che salta sotto gli occhi infantili di Pelé, a vederlo oggi sembra proprio che Gigi Riva non invecchi, 70 anni, come Diabolik e Corto Maltese, passa il tempo e il rombo resta uguale.
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Un’eco di avventura, una vecchia saga che mette allegria, un porto sicuro. Eppure è solo un attaccante, il migliore, nessuno pensi di andargli dietro, non lo prendi mica uno così, inutile marcare. Infatti non ci riuscirono nemmeno i tedeschi la sera della semifinale in Messico, di ItaliaGermaniaquattroatre, quando lui, G, ricevuto il pallone, controlla di sinistro, finta sullo stesso lato, oplà, lascia scorrere la palla, carica il mancino e incrocia, lato opposto, niente da fare per Maier, e treadue. Anche a Napoli, sempre con l’Italia ma contro l’altra Germania quella dell’Est, segnò un gol che ancora la gente si passa, sì, perché dove segnava Riva crescevano tifosi. 112015547-8387ba2b-ca98-4dd4-82ff-2480913910f7Novembre ’69, al San Paolo, Domenghini sulla destra scende a metterla in mezzo, Riva è dietro due difensori tedeschi, può arrivarci in un solo modo: tuffandosi, e lo fa, vola, anche se è senza mantello, e la prende di testa, il resto lo sentì tutta Napoli. «Ricordo quella rete, l’emozione nel cuore, il boato della folla, una gioia indescrivibile, cose che neanche se uno si ammalasse di Alzheimer potrebbe dimenticare». E nessuno ha dimenticato lui, anche ora che ha smesso di accompagnare la nazionale italiana, e che ha deciso di fare il Salinger sardo. Cagliari è diventata la sua cameretta prima ancora che la sua casa. Quando arrivò all’aeroporto di Elmas, nel 1963, raccontò «Luci soffuse, pista quasi buia, il deserto. Sembrava l’Africa», poi ha scoperto Africa non era, e se anche lo fosse stata: ora è la sua Africa. Ha fatto coincidere il meglio di sé con il meglio dell’isola, tanto che in molti non sanno che è lombardo.
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E in molti non sanno che lui è anche il nostro Yuri Gagarin: perché uno scudetto al Cagliari è roba da uomo nello spazio. La sua è una storia da romanzo, ancora da scrivere, tutta partendo dall’invenzione della sua solitudine, quella del bambino che cercò sui campi di pallone quello che non trovava più a casa. «Avrei voluto che mio padre e mia madre vivessero un po’ di più, per vedere quello che ho combinato». (da Il Mattino)